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“Angeli e macchine”

Angelo Sapio

La devozione popolare per la Santa di Viterbo, come noto, si esprime massimamente in quell’evento folkloristico e votivo allo stesso tempo che ha luogo la sera del 3 settembre quando i Viterbesi si stringono alle vie attraversate dal trasporto della Macchina di S. Rosa. Quel legame quasi fisico che essi hanno con la loro Patrona e che racchiude tutto il senso di appartenenza alla comunità e ai suoi riferimenti identitari, quella sera viene trasmesso ad un sodalizio di uomini che si fanno carico di “scortare la Santa alla sua casa”, una metafora che si traduce appunto con il trasporto sulle spalle di un centinaio di Facchini di una vertiginosa torre illuminata sulla cui cima svetta la statua di s. Rosa.

Il percorso attraversa i principali assi viari del centro storico partendo dalla Porta Romana fino a giungere al sagrato del Santuario dove sono conservate le Sacre spoglie. Una desueta tradizione popolare ritraeva nel trasporto della Macchina una sorta di parabola della vita della Santa. La partenza avviene infatti presso la piccola chiesa di S. Sisto dove, stando alla suddetta tradizione mai confermata dalle fonti, Rosa avrebbe ricevuto il battesimo e si conclude laddove ella avrebbe voluto vivere i suoi ultimi giorni: quel Monastero che l’aveva prima rifiutata e poi accolta solo pochi anni dopo il beato transito. Il senso storico di questo tragitto discende in realtà dalle evoluzioni che hanno interessato nel tempo quell’antica processione civico-religiosa in onore della Santa che prendeva il nome di Luminaria e che a sua volta celebrava la ricorrenza della Traslazione del Corpo di Rosa avvenuto, sempre secondo tradizione, il 4 settembre del 1258 per volere di papa Alessandro IV.

Istituita nel 1512 con una delibera del Consiglio dei Quaranta del Comune di Viterbo, che intendeva così riconoscere giuridicamente la festa in onore della Patrona della città, dal secolo successivo vide trasferirsi la partenza dalla piazza del Comune alla Porta Innocenziana (Romana) per suggellare quel rapporto di obbedienza che legava Viterbo alla Chiesa. Gradualmente questa processione a cui partecipavano le maggiori cariche civili, oltre che i rappresentanti del mondo del lavoro, ottenne sempre maggior vigore grazie anche all’aggiunta di una struttura lignea mobile, illuminata da candele, contenente l’immagine di s. Rosa, che veniva condotta a spalla da un gruppo di portatori.

L’usanza non era del tutto nuova, sempre più numerosi in quel periodo erano gli altari votivi trasportati durante i cortei religiosi patronali in tutta l’area latina europea. Solo a Viterbo se ne contavano almeno tre (ben noti erano quelli del Santissimo Salvatore e della Madonna Liberatrice), ma il blasone e l’attrattività che caratterizzavano la luminaria di s. Rosa erano tali che assieme alla partecipazione cittadina aumentavano progressivamente anche le dimensioni del simulacro. Presto questo assunse la denominazione di Mole e poi ancora di Mole di Trionfo, Macchina Trionfale o più semplicemente Macchina, ad indicare un imponente complesso strutturale simile a quelli utilizzati per le scenografie delle opere teatrali. Cresceva in dimensioni l’immagine della Santa, cresceva il numero di ceri per illuminarla e così crescevano pure gli elementi decorativi che concorrevano alla creazione di una vera e propria opera d’arte in movimento.

I primi disegni di macchine pervenutici danno testimonianza di come inizialmente si realizzassero dei semplici baldacchini in stile barocco non troppo dissimili da quelli che tutt’oggi si possono osservare nelle città andaluse in occasione delle processioni per la Semana Santa. La rappresentazione di s. Rosa nasceva quindi sotto forma di una statua assisa su di un altare, per poi evolversi nel tempo in un’immagine dipinta racchiusa all’interno di un cupolino. Attorno ad essa man mano facevano la loro apparizione varie allegorie. Si andava dai semplici putti incastonati nei candelabri fino alle personificazioni di virtù teologali, speranza e carità le più riproposte, passando per la raffigurazione di svariati santi o di anonime cariatidi poste sotto a cornici marcapiano a mo’ di sostegno dei diversi livelli della macchina. Non mancavano neppure le rappresentazioni di miracoli o scene di vita della Santa, come la guarigione della bambina cieca o il risanamento della brocca di fronte alla fontana o ancora l’apparizione della Madonna durante la malattia e numerose altre.

 

Tale registro venne mantenuto per lunghissimo tempo nonostante il passaggio a nuovi stili. Col XIX sec. infatti il barocco lasciò spazio alle ordinate linee neoclassiche prima di approdare al ben più evocativo stile gotico, che resistette fino oltre la metà del secolo scorso, nonostante la breve parentesi tardo ottocentesca che rifletteva un certo fascino per il gusto moresco.

Tutte queste fasi, come detto, non tradirono mai il ricorso all’utilizzo di figure intermedie disposte lungo la macchina fino alla cima dove veniva posizionata ovviamente la Santa. Le macchine moderne, a partire dal Volo d’Angeli di Giuseppe Zucchi (1967-1978), si sono nettamente affrancate dai modelli tradizionali che prediligevano una struttura massiccia e spesso sovraccarica di complementi e decorazioni ed hanno piuttosto puntato ancor di più sulla verticalità e sulla scelta di un singolo soggetto peculiare riproposto varie volte su più livelli. Ai generici stilemi neo-gotici venivano ora a sostituirsi elementi connotativi dell’architettura viterbese come fontane, colonne, leoni o le merlature delle mura, ma soprattutto le vecchie figure antropomorfe della macchina perdevano definitivamente sembianze di santi, muse e virtù per assumere quelle di astratte allegorie angeliche. Queste erano ben presenti anche prima a onor del vero; angeli messaggeri con trombe o recanti fiori, ghirlande o coccarde figuravano spesso anche nei modelli dei Papini, di Bordoni o di Spadini, ma dalla seconda metà del ‘900 in poi presero nettamente il sopravvento.

Il primo approccio con la modernità arrivò col modello scelto per l’edizione del 1952 dell’architetto viterbese Rodolfo Salcini, assistente universitario alla facoltà di architettura di Roma La Sapienza, insieme allo scultore romano Francesco Coccia. L’arditezza delle innovazioni introdotte appariva immediata: non più un’infinità di piccole guglie sovrapposte ma un’unica grande guglia dalle linee razionali, una struttura metallica al posto di quella vecchia in legno e un’inedita illuminazione cangiante al neon, che andava a sostituire in gran parte le luci a fiamma viva, per simulare lungo il percorso una pioggia di rose. Polemiche prevedibili a parte, furono però le numerose statue degli angeli a generare il maggior scalpore. Il costruttore Romano Giusti si era avvalso della collaborazione dei maestri cartapestai viareggini, specializzati nelle costruzioni del celebre carnevale della Versilia, per la realizzazione delle allegorie. Forse per incomprensione o per una mal concordata licenza con gli autori vennero eseguite sculture dall’aspetto molto meno ieratico rispetto a quelle a cui i più erano abituati. Angeli quindi in apparenza molto più laici che sacri in un anno in cui Viterbo si apprestava a celebrare i festeggiamenti per i settecento anni dal Transito di s. Rosa.

Riportano così le cronache:

Già le prime indiscrezioni dei corrispondenti dei quotidiani romani avevano rivelato la disinvoltura con cui si erano superate le dotte disquisizioni sul sesso degli angeli per trasformare in floride ragazze quelle che fanno corona alla Santa, quando nell’agosto del 1952 scoppiò la bomba più grossa: il Prof. Coccia chiedeva il sequestro della costruzione perché riteneva che non fossero state rispettate le caratteristiche fissate nel progetto, specialmente per quello che riguardava la parte scultorea. Sebbene si fosse subito rilevato […] che il trasporto della Macchina poteva avvenire anche se essa fosse stata sequestrata ed affidata ad un custode giudiziario, tutta la cittadinanza trepidò e visse giorni di ansia. Finalmente il Prof. Coccia ritirò la sua istanza in attesa del parere di una commissione di artisti di fama internazionale che decidessero della sua asserzione ai fini dell’eventuale indennizzo per i danni morali da lui subiti per la menomazione della sua opera.[1]

Come sempre accade, ogni resistenza venne infine superata e la Macchina di Salcini sfilò per le vie di Viterbo per altre sei edizioni.

Temporaneo ritorno alla tradizione col modello goticheggiante di Angelo Paccosi (1959-1966) e finalmente la storia della macchina volta pagina con l’innovazione introdotta da G. Zucchi. Il suo “Volo d’Angeli” (questo era il nome scelto dall’autore), con un’altezza che superava addirittura i 30 metri, proponeva per la prima volta un “testo narrativo” semplice e diretto che ottenne subito un notevole consenso di pubblico. Si trattava per l’appunto di una colonna di quattro ordini di angeli (poi portati a cinque negli anni successivi) che elevavano in volo la Santa come su di un grande zampillo d’acqua. Gli angeli di Zucchi erano imponenti e comunicativi nonostante fossero disposti con le spalle rivolte al pubblico. In un’intervista a Quirino Galli l’autore rivelò:

All’inizio l’avevo messi di spalle [tra di loro] ma non andavano bene e gira gira li misi abbracciati: ricorderanno i paracadutisti quando si lanciano come quelli che stavano a Viterbo e spesso andavo a vederli quando si esercitavano. La macchina fu ispirata da quello che fece la Divisione Folgore, cose inaudite, contro i carri armati inglesi. […] Gli ultimi paracadutisti che partirono, compreso il generale comandante e lo Stato Maggiore, andarono a S. Rosa a chiedere la grazia e non chiesero né di vincere, né di ritornare, ma che a loro non mancasse l’onore”. […] Si recarono a visitare Santa Rosa a mezzanotte: le suore dovettero aprire appositamente la Chiesa per quell’incontro. [2]

L’idea primigenia di questo stuolo angeli gli venne suggerita inizialmente dal figlio Luigi, all’epoca appassionato lettore delle avventure degli “uomini-falco” di Flash Gordon, eroi dei fumetti americani creati dalla fantasia di Alex Raymond, divenuti strisce di successo anche in Italia. Furono queste creature ibride e visionarie a colpire l’immaginario dell’autore della Macchina per la loro possibile associazione con i paracadutisti della Folgore ed un tipo di lancio che questi ultimi effettuavano, chiamato appunto “salto a volo d’angelo”. Interessante dunque la lettura finale che ne dà Antonio Riccio nel suo Saggio Antropologico:

Gli angeli in volo erano quindi la «trascrizione occulta» della nuova macchina viterbese, trasformata in un ex-voto a testimonianza dell’onore salvato dei paracadutisti italiani caduti ad El-Alamein. [3]

Anche il modello successivo, “Spirale di Fede” di M. Antonietta Palazzetti Valeri (1979-1985), puntò su un soggetto semplice ed intuitivo: una sottile spirale merlata che si avvitava verso l’alto fino ad innalzare al cielo la statua della Santa. Anche in questo caso erano presenti degli angeli ma, seppur in numero cospicuo, consistevano in bassorilievi di piccole dimensioni che, come nei vecchi modelli, concorrevano a comporre l’insieme dell’opera. Più vistosi invece erano i leoni alla base che catturavano immediatamente l’attenzione dell’osservatore.

Discorso similare anche per “Armonia Celeste” del duo Joppolo-Antonini (1986-1990) dove un maestoso leone faceva sfoggio di sé su un’imponente base frutto di una fortunata sintesi tra gli scorci più caratteristici della Viterbo medievale. Al di sopra di questa un vortice di angeli musicanti si sprigionava portando in gloria la Santa. In questo caso i bassorilievi degli angeli avrebbero dovuto ricoprire un ruolo molto più preminente essendo essi stessi a costituire quel vortice ascendente, ma in realtà l’opera definitiva non corrispose perfettamente al bozzetto originale degli autori, in quanto le allegorie risultarono troppo poco pronunciate ed anche l’illuminazione finì per risentirne.

Il leone simbolo di Viterbo sembrò spodestare per un certo periodo l’egemonia dell’angelo come figura chiave all’interno della Macchina prima di perderne nuovamente il primato. Nell’onirica “Sinfonia d’Archi” di Angelo Russo (1991-1997), sotto il complesso gioco di curve che arrivava fino alla cima trovavano spazio unicamente due leoni semi-antropomorfi ispirati a quelli in peperino che svettano su due stele in Piazza del Plebiscito.

 

Tertio Millennio Adveniente – Una Rosa per il Duemila” (Cesarini-Andreoli-Cappabianca, 1998-2002) fu il modello che ebbe il compito di scortare la tradizione viterbese verso il futuro e per farlo propose una sintesi originale dei vari stili che avevano fatto la storia della Macchina lungo i secoli. Forse come omaggio all’iconico Volo, due gruppi di angeli abbracciati, quasi in quella stessa posizione, si aggrappavano con le mani attorno ad esili colonnine come a voler raggiungere la Santa nella gloria. Interessante la scelta stilistica di queste allegorie dai tratti poco definiti, quasi evanescenti, ma allo stesso tempo capaci di carpire l’attenzione degli astanti. Uno degli angeli infatti guardava alle sue spalle, in direzione del pubblico, con espressione turbata e rapita allo stesso tempo, come a voler comunicare la sua sofferenza.

Il salto definitivo nella modernità arrivò con “Ali di Luce” di Raffaele Ascenzi (2003-2008). Per la prima volta la Macchina aveva delle parti mobili, ali per l’appunto, che potevano aprirsi e richiudersi lungo il percorso attraverso un meccanismo interno. Nonostante un aspetto decisamente avveniristico rispetto ai disegni precedenti, anche qui le allegorie svolgevano un ruolo di primaria importanza. Leoni ed angeli tornavano a compartecipare dell’insieme narrativo della Macchina come a voler rimarcare il legame con le radici identitarie popolari e spirituali della comunità: quattro mascheroni leonini fuoriuscivano da un globo poggiante su una base che recitava il motto araldico della città di Viterbo (“Non metuens verbum leo sum qui signo Viterbum”), mentre tre ordini di angeli rivolti verso l’esterno scandivano i moduli della Macchina fino alla Santa.

 Gli angeli di Ali di Luce non erano angeli qualsiasi, essi di fatti si ispiravano ad una celeberrima opera funeraria dello scultore romantico Giulio Monteverde: l’Angelo della Resurrezione. Si tratta di una statua in piombo realizzata nel 1898 a decorazione della tomba della famiglia De Parri nel cimitero monumentale di Viterbo. La stessa, in realtà, non è altro che una delle numerose copie realizzate dal Monteverde del più celebre monumento funebre per la famiglia Oneto al cimitero di Staglieno di Genova (1882), sempre sua opera[4]. Il soggetto ebbe una fortuna tale da essere riproposto nel tempo da diversi altri scultori nel tentativo di replicarlo, esattamente come accadde anche per il coevo Angelo del Dolore del Cimitero Acattolico di Roma (opera di William Wetmore Story, 1894).

 

 

Innumerevoli versioni sono rintracciabili in Italia e all’estero. Solo per citare alcuni esempi: nella chiesa di S. Agostino di Prato, al cimitero monumentale di Pavia, o a quello di Benetutti in prov. di Sassari, o ancora al Woodlaw Cemetery del Bronx a New York (USA), al Cementerio de Cristóbal Colón a l’Havana (Cuba), al Cementerio Recoleta di Buenos Aires (Argentina) e numerosissimi altri. Definito come un “testimone dell’ambiguo mistero del nulla”, l’Angelo di Monteverde ancora oggi è percepito come un’opera fortemente iconica e accattivante.

In Ali di Luce l’ideatore scelse di utilizzare l’espressività di questo angelo modificandone leggermente la postura a seconda della posizione lungo la Macchina. Gli angeli del primo ordine erano quelli che più si avvicinavano all’opera originale, tendevano infatti a guardare verso il basso ossia al globo su cui poggiavano, come ad osservare il mondo, con le braccia incrociate. Gli angeli del secondo ordine tendevano invece a porre lo sguardo sugli osservatori per interagire con loro ed invitarli a proseguire la visione, abbozzando un sorriso; anche le mani si scostavano leggermente dal petto. Infine, gli angeli de terzo ordine sollevavano il viso verso la Santa, con le mani che cercavano di elevarsi in segno di dono.

A raccogliere il pesante testimone di Ali di Luce fu “Fiore del Cielo” (2009-2014), la creatura di Arturo Vittori e Andreas Vogler che ebbe anche il vanto di essere esposta in un padiglione dell’Expo di Milano del 2015. La misura stilistica cambia radicalmente pur rimanendo l’uso di una certa simbologia di facile comprensione. Ancora una volta angeli e leoni tornavano a compartecipare nella globalità della Macchina; ancora una volta ricorreva il motivo del vortice, qui a significare una colossale torcia floreale ed ancora una volta vi era una tripla ripetizione, in questo caso nelle tre sfere che evocavano la vita della Santa (la sua presenza terrena, la forza della sua fede, l’ascensione al cielo). Tuttavia l’elemento innovativo per cui verrà ricordata questa Macchina fu la cascata di petali di rosa lanciati ogni anno in una particolare fermata del trasporto, una soluzione studiata dagli autori per ottenere una maggiore interazione con il pubblico presente.

L’ultimo modello in ordine cronologico è infine “Gloria”, altra creazione dell’Arch. Raffaele Ascenzi. Inaugurata nel 2015, dovrebbe aver concluso il suo mandato nell’edizione del 2022 dopo la pausa forzata di due anni, causa pandemia. Con Gloria sembra tornare preponderante la tradizione con numerosi elementi gotici che tanto ben si sposano con le attese dei Viterbesi. Non mancano le iconiche bifore che ricordano la loggia del Palazzo Papale, ma anche rosoni, cuspidi, guglie e colonnine tortili, tutte ben assemblate come nella migliore tradizione dei Papini. Ad aver ispirato maggiormente l’autore fu però un oggetto ben noto nella devozione popolare dei Viterbesi verso la loro Patrona: il Reliquiario che contiene il Cuore della Santa[5].

La Macchina ripropone dunque per tre volte in successione il corpo centrale del reliquiario arricchendolo di numerose allegorie. Sotto i pinnacoli, al posto dei santi incastonati nel reliquiario trovano spazio delle candide figure angeliche che sembrano lasciare la loro sede per librarsi in aria. Ognuno di questi angeli porta in mano una pergamena, a simboleggiare l’intercessione dei messaggi che i fedeli rivolgono alla Santa durante l’anno e che vengono raccolti in una teca all’interno del Santuario prima di essere inseriti direttamente nella Macchina il giorno del trasporto. 

Un ulteriore elemento di novità è la comparsa di altre figure antropomorfe nella Macchina, oltre ai classici angeli, come non accadeva da moltissimo tempo. Si tratta di figure maschili che sorreggono le vasche su cui poggiano i primi tre moduli della struttura, come dei moderni Atlanti. Essi vogliono celebrare il sacrificio dei Facchini che da secoli sostengono il peso della loro responsabilità, una sorta di facchini ancestrali. Afferma l’ideatore:

“Sono dei portatori che non vestono i caratteristici abiti del trasporto… Sono facchini senza tempo, con dei turbanti in testa che ricordano il tipico fazzoletto e indumenti che lasciano intravedere alcune parti del fisico…Sono facchini angelici, poiché sono a immediato contatto con gli angeli. Nel quarto modulo scompaiono insieme all’architettura e la Macchina diventa solo un fatto spirituale”.

Le Macchine che erediteranno da Gloria oneri e onori della tradizione viterbese cercheranno misure stilistiche diverse, in accordo col passare dei tempi e delle tecnologie a disposizione, ma con ogni probabilità continueranno ad aver bisogno dell’ausilio di tutti quei simboli, come le mai troppo abusate figure angeliche, che potranno garantirne quel vincolo profondo con le radici umane e spirituali della “festa”.

Ancora ottima la conclusione che scaturisce dal saggio antropologico di Antonio Riccio:

Macchina e Santa (tra loro con-fuse) sono il genius loci, un emblema eccellente che diviene simbolo riassuntivo cittadino, formano un complesso artistico-architettonico che integra fontane, leoni, palme e scene di vita della Santa in una struttura in movimento, un teatro dinamico che ricapitola e assicura la trasmissione dell’ethos comunitario. [6]

 

Lo scrittore Orio Vergani, inviato del Corriere della Sera, di passaggio nel 1935 in una Viterbo lontana e provinciale, ebbe l’occasione di assistere al passaggio della Macchina e ne rimase colpito al punto da definirla di getto un “campanile che cammina”. Tale denominazione ovviamente si prestava puntuale all’aspetto che aveva all’epoca la macchina di Virgilio Papini, ma nonostante il passare degli anni, ancora oggi è così che la Macchina di S. Rosa viene esportata nel mondo.


[1] Sandro Vismara, “Cara Viterbo”. Aspetti, avvenimenti e personaggi nella Tuscia dal 1945 al 1985, Viterbo 2014.

[2] Quirino Galli, “I Facchini e il culto di Santa Rosa”, in “Santa Rosa: tradizione e culto”, a cura di Silvio Cappelli, VIterbo 1999.

[3] Antonio Riccio, “Santa Rosa e i Viterbesi”. Saggio antropologico, Viterbo 2018.

[4] Dall’angelo traspare una forte carica di emotività sensuale che rompe con gli schemi scultorei fino ad allora in voga: sebbene l’angelo regga con la mano destra la tromba del giudizio universale, la sua postura e il suo sguardo imperscrutabile hanno tutt’altro che un aspetto consolatorio, come ci si aspetterebbe da una figura angelica, facendolo apparire per contro lontano e distaccato rispetto all’evento di cui è muto testimone.

[5] Si tratta di un pezzo pregiatissimo in argento cesellato placcato in oro che venne donato al Monastero di S. Rosa nel 1929 dal papa Pio XI, il quale lo ebbe a sua volta in dono da un pellegrinaggio proveniente dal Santuario polacco della Madonna di Częstochowa. Nel 1984 Papa Giovanni Paolo II, in visita al Monastero, ne riconobbe la fattura.

[6] Antonio Riccio, “Santa Rosa e i Viterbesi”. Saggio Antropologico, Viterbo, 2018.

La forza di una fanciulla ordinaria

Filippo Sedda

1° settembre all’imbrunire, sagrato del Santuario di S. Rosa. Un giovane papà tiene in braccio il suo bimbo neonato vestito con la caratteristica divisa da facchino. Poche ore dopo i mini-facchini (ovvero circa 200 ragazzi tra i 6 e i 14 anni suddivisi in tre squadre) trasportano per le vie del Centro storico la mini-macchina di S. Rosa, con uno stop davanti alla chiesa. È vivo e palpitante, quasi tangibile, il senso di appartenenza dei viterbesi a santa Rosa. Si diventa facchini di santa Rosa ancora prima di imparare a camminare, ancora prima di saper pronunciare il nome della santa Patrona.

2 settembre, sagrato del Santuario di S. Rosa. Qualcuno impartisce ordini, perché la folta schiera di figuranti (oltre 300) del Corteo storico si disponga nel giusto ordine per raggiungere e poi accompagnare la solenne processione del cuore di santa Rosa, che dalla Cattedrale arriva al Santuario. Quello che colpisce anche in questa giornata è la presenza di una folta schiera di ragazzi a vestire i panni delle rosine e dei boccioli e di altri personaggi storici. Si tocca con mano nei volti di tutti il desiderio di esserci (soprattutto dopo due anni di fermo) per stare più vicino possibile al cuore della Santa.

3 settembre al tramonto, sagrato del Santuario di S. Rosa. Una folla di spettatori da qualche ora si accalca per conquistare uno spazio che consenta di vivere il trasporto della macchina. La speranza è di poter raccogliere uno sprazzo di luce che la macchina accende per le strade di Viterbo, squarciando il buio che intenzionalmente riempie le vie cittadine. In quel momento ogni singolo partecipante diventa facchino, non perché fisicamente si carica del peso della macchina, ma perché parte di una forza, un sentimento collettivo.

4 settembre all’alba, sagrato del Santuario di S. Rosa. Una processione incessante e continua di persone si inerpica sulla salita per andare a sostare qualche secondo davanti all’urna della Santa, per partecipare a una messa o semplicemente per avere anche quest’anno una rosa a ricordo di questa festa.

Si addice per Rosa la domanda che nei Fioretti frate Masseo rivolge a frate Francesco: «Dico, perché a te tutto il mondo viene dietro, e ogni persona pare che desideri di vederti e d’udirti e d’obbedirti? Tu non sei un bell’uomo nel corpo, tu non sei di grande scienza, tu non sei nobile; onde dunque perché a te tutto il mondo viene dietro?».

La forza di Rosa è come quella di Francesco, è quella di scardinare tutte le logiche umane: la bellezza, la conoscenza, la posizione sociale… È la debolezza di Rosa a conquistare, il suo essere una come tante, non avvenente nel fisico, semplice, quasi anonima per la società. Tuttavia Rosa è riuscita a vivere in modo straordinario la sua ordinarietà.

Seguiamo anche noi l’esempio della nostra Patrona: non possiamo lamentarci di non avere questo e non avere quello, ma occorre che ci impegniamo a essere quello che siamo, fino in fondo.

Buona festa di santa Rosa a tutti!

Inaugurazione sala multimediale

Venerdì 26 agosto alle ore 17 si inaugurerà la sala multimediale presso il Salone del Quattrocento del Monastero S. Rosa allestita dal dal Centro studi S. Rosa da Viterbo e con il contributo della Fondazione CARIVIT.

La sala con una capienza di circa 60 posti a sedere è munita di impianto di audio diffusione, di videoproiettore digitale e schermo avvolgibile. È attrezzata per conferenze e presentazioni in modalità mista, esigenza sempre più attuale dopo l’esperienza vissuta sotto la pandemia.

All’inaugurazione saranno presenti Luigi Pasqualetti, presidente della Fondazione, e Attilio Bartoli Langeli, presidente del Centro Studi e sarà un’occasione per ricordare le iniziative culturali di carattere scientifico e divulgativo promosse dal Centro Studi grazie al finanziamento della CARIVIT in questi oltre dieci anni di collaborazione sinergica.

L’inaugurazione si unisce all’apertura degli spazi espositivi dell’evento “La forza della fede. Mostra storico-documentaria sulla festa di Santa Rosa”, infatti l’ultimo allestimento dedicato a bandi ed editti è ospitato proprio nel salone del Quattrocento.

La forza della fede. Mostra 2022

“Evviva santa Rosa!” Il grido lanciato all’unisono dai facchini di santa Rosa, quest’anno riecheggerà nuovamente per le vie del centro di Viterbo!

La forza e il sacrificio di questi cento uomini che portano in spalla la macchina di santa Rosa diventa ancora gesto, sentimento, fede…

È questo che vuole raccontare e documentare la mostra organizzata dal Centro Studi Santa Rosa da Viterbo onlus con il contributo del Comune di Viterbo e allestita presso il Monastero di S. Rosa che verrà inaugurata venerdì 26 agosto alle ore 17:00.

La mostra antologica dal titolo “La forza della fede. Mostra storico-documentaria sulla festa di Santa Rosa” è il frutto di una collaborazione sinergica tra vari enti e istituzioni locali e non solo: l’Università degli Studi della Tuscia, il Monastero delle Clarisse di Santa Rosa di Viterbo; la Federazione “S. Chiara” delle Monache Clarisse Urbaniste d’Italia (Archivio e Biblioteca); il Sodalizio dei Facchini di Santa Rosa; Donne per la Rete sezione di Viterbo, l’Associazione Italiana Persone Down sezione di Viterbo; con il patrocinio della Diocesi di Viterbo, della Fondazione CARIVIT e dell’Institute of Mediaeval Studies – University of St Andrews. Essa presenta documenti, oggetti e immagini relativi alla festa della patrona cittadina, organizzati in un percorso dinamico articolato in quattro sezioni:

nella Sala Capitolare sono esposti il quattrocentesco processo di canonizzazione di Rosa da Viterbo e gli originali delle due pergamene del 1512 con le quali fu istituita la processione civica in onore di santa Rosa;

nel Refettorio antico sono esposti i modellini e i bozzetti della Macchina di Santa Rosa, nonché altri oggetti legati al Sodalizio dei Facchini;

nella Sala delle Colonne è esposta la documentazione relativa al Corteo Storico e agli aspetti della liturgia e alla vita quotidiana delle monache di Santa Rosa nei giorni della festa;

nella Sala del Quattrocento, infine, sono esposti riproduzioni di bandi e manifesti della festa e sono proiettati a ciclo continuo video relativi alla Santa, alla festa, alla processione, al trasporto e al culto di Rosa in Italia e nel mondo.

La mostra osserverà il seguente orario: dal martedì alla domenica, 9:30-12:30 e 15:30-19:30. Nei giorni della festa (3-4 settembre) e per tutto il periodo di sosta della Macchina davanti al Santuario, l’orario sarà prolungato secondo un calendario che verrà reso disponibile prima dell’inizio della manifestazione.

La mostra sarà visitabile fino al 31 ottobre 2022. L’ingresso è gratuito.

Presentazione del volume “Il colera nel chiostro”

Venerdì 17 giugno alle ore 17 si terrà presso il Monastero di S. Rosa a Viterbo la presentazione del libro di Cristina Marucci, “Il colera nel chiostro”.
Ne parleranno con l’autrice Antonio Maria Lanzetti, presidente dell’Ordine dei Medici, e Luciano Osbat, responsabile del Centro diocesano di documentazione (Ce.Di.Do.).

Il volume nasce dalla ricerca sostenuta dalla borsa di studio bandita nel 2019 dal CSSRV con il contributo dell’Università della Tuscia, del Comune di Viterbo, della Fondazione CARIVIT e del Sodalizio dei Facchini di Santa Rosa da Viterbo e con il patrocinio gratuito della Provincia di Viterbo e della Diocesi di Viterbo. 

Questo volume, stampato grazie al contributo dell’Archivio di Stato di Viterbo, vuole essere un tassello per ricostruire eventi accaduti quasi due secoli fa, ma che si manifestano in tutta la loro stringente attualità con l’ultima pandemia dovuta alla COVID-19 che tutti abbiamo vissuto. Questo libro è anche un segno concreto di valorizzazione del patrimonio archivistico del Monastero di S. Rosa e della città di Viterbo, visto che l’autrice ha condotto la sua ricerca tra le carte non solo dell’Archivio della Federazione delle Clarisse Urbaniste, ma anche del Ce.Di.Do e dell’Archivio di Stato di Viterbo il cui direttore, il dott. Angelo Allegrini, ha scritto l’introduzione del volume. È stata anche l’occasione per offrire ai lettori la ristampa anastatica del libro del medico Giovanni Selli dal titolo Relazione del cholera asiatico sviluppato nel v. monastero di S. Rosa in Viterbo, stampato a Viterbo presso la Tipografia Tosoni nel 1837.

Apertura straordinaria della cella di Armida Barelli

Il video

In occasione dell’edizione 2022 delle Giornate di valorizzazione del patrimonio culturale ecclesiastico, dal 14 al 22 maggio sarà possibile visitare su prenotazione la cella della beata Armida Barelli presso il Monastero di S. Rosa da Viterbo, preservata dalle monache nella sua forma originaria.

Per un’introduzione alla figura della beata Armida Barelli, al suo legame con santa Rosa e alla sua stanza nel Monastero di S. Rosa ecco il video realizzato da Luca e Renzo Antonelli (regia), Angelo Sapio ed Elisabetta Storcè (testi). 

Per prenotarsi alla visita guidata, occorre obbligatoriamente iscriversi al seguente link: https://forms.gle/ifWU7Gx7er5rEaVN8.
Le visite saranno possibili nei seguenti orari:

lunedì: ore 11

martedì-venerdì: ore 11 e 17

sabato: ore 11, 17 e 18

domenica: ore 10, 17 e 18

Per conoscere meglio la figura di Armida Barelli vi consigliamo anche di consultare gli altri approfondimenti curati dal nostro Centro Studi:

Ripensare la reclusione volontaria

Presentazione volumi

Il Centro Studi Santa Rosa da Viterbo onlus in collaborazione con la Fondazione per le Scienze Religiose, l’Institute of Mediaeval Studies of the University of St Andrews, il Dipartimento di Studi umanistici e del patrimonio culturale dell’Università degli studi di Udine, la casa editrice il Mulino, la rivista “Quaderni di Storia religiosa medievale”  organizza la presentazione dei volumi realizzati con il finanziamento “European Union’s Horizon 2020 Research and Innovation programme” (Marie Sklodowska – Curie Grant Agreement N ° 751526):

Ripensare la reclusione volontaria nell’Europa medievale

QSRM 24/1-2 (2021)

Thomas Frank e Daniela Rando

ne parleranno

con le curatrici Frances Andrews ed Eleonora Rava

il 28 maggio 2022 alle ore 17.00

nel salone del Quattrocento del monastero di S. Rosa a Viterbo (via S. Rosa 33)

Per richiedere le credenziali al collegamento ZOOM clicca qui. Sarà disponibile anche la diretta YOUTUBE sul canale del CSSRV.

Arte e scrittura

Un corso autunnale in memoria di Chiara Frugoni

Quasi un mese fa veniva a mancare Chiara Frugoni, che poco tempo prima aveva risposto con il suo consueto entusiasmo e passione, rendendosi disponibile a partecipare a un’iniziativa formativa promossa dal Centro Studi Santa Rosa da Viterbo: il corso “Arte e scrittura”.

Per questo abbiamo deciso di dedicare questo seminario a Chiara e di trasformare la lezione ‘della’ Frugoni in una lezione ‘sulla’ Frugoni. Di seguito trovate la presentazione del corso, che orientativamente si svolgerà nel prossimo autunno in doppia modalità: online e in presenza presso l’Istituto Norvegese a Roma.  

Maggiori dettagli sulle date e sulle modalità di iscrizione saranno pubblicati alla fine dell’estate.

Armida Barelli

In occasione della beatificazione di Armida Barelli, 30 aprile 2022, vi proponiamo un contributo di Marcella Serafini (Istituto teologico d’Assisi), che ha tenuto anche un intervento presso il santuario di S. Rosa a Viterbo il 3 marzo 2022. Qui il video della conferenza.

Francescana, laica, appassionata

C’è un legame profondo e significativo che congiunge Armida Barelli (1882-1952) alla città di Viterbo e alla sua patrona santa Rosa, un legame che si fonda nella comune ispirazione francescana e si traduce per entrambe in apostolato laico, passione civile. L’amicizia con Dio, intensamente vissuta, porta entrambe a vivere la propria umanità nel dono totale, osando con l’audacia dell’amore. C’è anche un altro tassello che congiunge in modo indissolubile Armida alla città di Viterbo: la Gioventù Femminile di Azione Cattolica (GF); è proprio nella chiesa di santa Rosa, infatti, che nel 1868 matura nel giovane viterbese Mario Fani, allora ventitreenne, l’intuizione dell’Azione Cattolica.

Grazie a santa Rosa, a cui era particolarmente affezionata a motivo della comune vocazione francescana, Armida frequenta spesso Viterbo: tiene incontri per la GF, sosta presso il Monastero – chiedendo l’intercessione della giovane santa – e si intrattiene con le monache.

La beatificazione di Armida Barelli, ormai prossima (il 30 aprile), è un dono che la città di Viterbo è chiamata ad accogliere come una responsabilità e un nuovo appello. Ma chi era Armida Barelli? Quale l’attualità della sua testimonianza?

Nata nel 1882 da una famiglia dell’alta borghesia milanese che le ha trasmesso senso del dovere e alti valori civili e morali, Armida mostra sin da bambina un carattere vivace e intraprendente, deciso e piuttosto insofferente verso le regole. È dotata di grandi capacità organizzative e di profonda sensibilità, come dimostra durante gli anni di permanenza presso il Collegio S. Croce di Menzingen, dove era stata mandata dalla famiglia per completare gli studi. Agli anni di collegio risalgono il primo incontro con la spiritualità francescana e con la devozione al S. Cuore.

Conclude gli studi nel 1900, con pieni voti, un’ottima formazione e la conoscenza di tre lingue; il suo progetto di vita è ben chiaro: “O sarò suor Elisabetta missionaria in Cina, oppure madre di dodici figli; ma zitella mai e poi mai!”.

Tale simpatica dichiarazione esprime con chiarezza il carattere della giovane, aperta a grandi ideali e poco incline ai compromessi; lo manifesta nei modi permessi dalla mentalità del tempo, che non prevedeva altra possibilità di vocazione oltre a quella religiosa e matrimoniale. Eppure Armida sarebbe stata pioniera di una strada nuova, inedita, di consacrazione a Dio per la missione, non attraverso la ‘fuga mundi’, ma cercando di colmare la distanza tra ambiti apparentemente opposti e inconciliabili: fede e mondo, religione e scienza, fede e cultura, religione e impegno politico-sociale, portando il mondo a Dio nella preghiera e Dio al mondo attraverso l’apostolato.

L’accoglienza di tale chiamata non è facile per Armida, che deve mediare tra i pregiudizi del tempo e le sue inclinazioni, talvolta incomprensibili persino a se stessa: il rifiuto sempre più consapevole delle proposte di matrimonio, l’attrazione irresistibile verso Dio, una predisposizione innata ad aiutare gli altri. Il suo cammino vocazionale – piuttosto lungo e tormentato – passa attraverso incertezze, crisi e combattimenti interiori, ma trova il sostegno unanime dei sacerdoti che hanno la grazia di accompagnarla.

L’incontro con p. Agostino Gemelli, avvenuto l’11 febbraio 1920, segna una svolta nella vita di Armida. Ella apprezza la concretezza e l’umanità di p. Gemelli; quest’ultimo, da parte sua, è colpito dal ‘candore’ e dalla determinazione della giovane, dal suo desiderio di apostolato, ma anche dalle notevoli capacità umane, organizzative e pragmatiche. Decide così di coinvolgerla nelle sue iniziative, affidandole alcune traduzioni per la Rivista di Filosofia Neoscolastica. Dopo l’incontro con p. Gemelli, tutte le esitazioni vocazionali di Armida scompaiono: entra nel Terz’Ordine Francescano e si consacra a Dio per l’apostolato nel mondo. La loro collaborazione diventa stabile e durerà per 42 anni, fino alla morte di Armida. Il primo frutto di tale azione comune è la consacrazione di soldati al S. Cuore, a cui fa seguito una intensa attività di formazione dei laici, attraverso l’Opera della Regalità, l’Opera Impiegate e una serie di opuscoli sulla liturgia. Una molteplicità di iniziative che scaturiscono da un ampio progetto di formazione cristiana dell’Italia, a tutti i livelli, dalla base (operai, laici, popolo) fino ai vertici intellettuali e politici. Il culmine di tale progetto è l’università Cattolica, inaugurata il 7 dicembre 1921.

Il ruolo di Armida Barelli nella costituzione dell’Ateneo va ben oltre la raccolta di fondi di cui ella è promotrice come cassiera, ma è strettamente legata alla sua straordinaria tenacia e grande fede, manifestata già nel contesto del Comitato fondatore. Ella ha dimostrato di saper sperare  contro ogni speranza e di credere fortemente nella possibilità di realizzazione di quest’opera, sebbene in assoluta povertà di mezzi, solo perché promessa e dedicata al S. Cuore. È merito esclusivo della fede di Armida Barelli se il nome e titolo dell’Ateneo – dedicato al S. Cuore – si sono concretizzati, secondo per una motivazione teologica ben precisa: “il S. Cuore è la sede di ogni sapienza e scienza”. Non è ingenuità, anche se a prima vista potrebbe sembrare, ma fede profonda, biblicamente e teologicamente fondata.

Il progetto culturale promosso in collaborazione con p. Gemelli, si coniuga perfettamente con l’altra impegnativa attività svolta da Armida Barelli nel fondare la Gioventù Femminile prima nella Diocesi di Milano, su richiesta del Card. Ferrari, e successivamente, su esplicita richiesta del Pontefice, di estenderla su tutto il territorio italiano. Armida, che si sente inadeguata per svariati motivi, avanza tutte le possibili obiezioni, ma poi, “solo per amore del Sacro Cuore” e per obbedienza alla Chiesa, accetta. Intraprende così un’opera che avrebbe favorito la formazione umana e cristiana, su tutto il territorio nazionale, di ragazze, e in seguito anche bambine, che altrimenti sarebbero state irraggiungibili dall’azione formativa dello Stato. Il modello antropologico e femminile trasmesso dalla GF costituisce un’alternativa efficace e significativa a quanto propagandato dal Fascismo, tanto da suscitare la preoccupazione del Regime stesso.  

Università, Gioventù Femminile e formazione dei laici, sono opere che Armida Barelli ha potuto realizzare perché radicata in Dio, centro unificatore del suo essere e operare. Questa sua attitudine si concretizza nel 1919, nella fondazione, insieme a p. Gemelli, di una comunità di consacrate secolari – un primo gruppo di dodici sorelle – che avrebbe preso in seguito il nome di Istituto Secolare delle Missionarie della Regalità di Cristo. Il nucleo di tale vocazione è sintetizzato da p. Gemelli con i termini consacrazione (totale appartenenza a Dio), secolare (operando nel mondo), secondo la spiritualità francescana.

L’indole francescana di Armida Barelli è una caratteristica ‘naturale’ di Armida Barelli, come testimoniano p. Gemelli e Maria Sticco. Quest’ultima, docente presso l’Università Cattolica e tra le prime consacrate dell’Istituto secolare da loro fondato, scrive pagine di estrema chiarezza: «In virtù della sua semplicità e fede mirava dritto al fine per la via più breve, non aveva complessi, non si ripiegava su se stessa, semplice e decisa, e perciò veramente libera. Libera da perplessità interiori, libera nelle circostanze, nulla la intimidiva. Libera dal mondo, non curava come frenanti i giudizi altrui. Libera dal dolore, lo considerava nell’amore di Dio a andava avanti. La spiritualità francescana, che corrispondeva alle sue tendenze naturali, lei la sovrannaturalizzò promuovendo la sua semplicità e fede in volontà dinamica e azione costante, che aveva centro vitale nella sua devozione al Sacro Cuore e alla Regalità di Cristo»[1].

Il nucleo centrale e motore della vita di Armida era l’amore con Dio e la comunione con lui, che ella raggiungeva, pur restando immersa nell’azione, attraverso una preghiera trasformante, che sotto i tratti della devozione nascondeva una intensa vita di comunione soprannaturale. Maria Sticco attesta che ella «viveva nella comunione dei santi. Come viveva fra gli uomini, così viveva fra i santi e li interpellava, parlava con loro, come con uomini in cammino»[2].

La preghiera vocale era per lei “avviamento alla contemplazione”: riusciva a vivere la contemplazione «nel cuore dell’azione, contemplazione senza visioni, senza estasi, contemplazione del suo Signore, del suo Cuore, del suo amore incomprensibile e immenso»[3]. La sua vita interiore “era un continuo colloquio con Dio”, semplice e confidenziale, lo sentiva presente in tutti i momenti e attività della giornata. Il lavoro era servizio di Dio e incontro con i fratelli; dalla consapevolezza di operare per i fratelli e quindi di amare i fratelli, obbedendo così al comando evangelico, nasceva la sua calma, l’ascolto attento, tranquillo, il «dominio sereno di sé»[4]. Questa unione continua con gli uomini e con Dio nel lavoro non escludeva il tempo dedicato unicamente alla preghiera; non identificava infatti preghiera e azione né sostituiva la preghiera con il lavoro. Non diceva “lavoro dunque prego”, ma  «nel mezzo del lavoro era sempre unita a Dio, nel cuore dell’azione pregava, avendo sempre vivo e presente nella fede e nell’amore la persona di Cristo»[5].

L’esperienza di Armida Barelli testimonia la bellezza di una vita spesa per Dio, nella limpida consapevolezza che chi si dona e affida a Lui non perde nulla ma tutto riceve. La sua missione incarna in modo sublime alcune predisposizioni della sua personalità, perfettamente armonizzate grazie alla spiritualità francescana, conosciuta grazie a p. Gemelli:

  • L’attitudine alla sintesi tra Dio e mondo, religione e cultura, raccoglimento e impegno socio-politico, preghiera e attività, contemplazione e azione; è un’attitudine a superare separatismi e divisioni per costruire ponti e custodire le relazioni.
  • L’importanza decisiva della formazione: Armida Barelli e p. Gemelli avevano capito il valore imprescindibile della formazione a tutti i livelli (culturale, civile e religioso), in tutti gli stati e condizioni di vita, per favorire dialogo e dinamismo. L’impegno civile e politico è finalizzato a trasformare in vita concreta la Regalità e il primato del S. Cuore.
  • La fiducia nel mondo giovanile, in particolare le ragazze, di cui ella si prendeva cura, attraverso l’ascolto attento e libero da pregiudizi, che consentiva di far emergere da loro doni, talenti, predisposizioni e capacità, dando loro fiducia anche nei casi di maggiore difficoltà.
  • L’intuizione della peculiarità del genio femminile, l’impegno decisivo nel percorso di promozione della donna attraverso l’attività formativa, associativa, di confronto, dialogo e impegno che – soprattutto in quegli anni – risultava profetica.
  • La necessità di una filosofia cristiana – che traduca in idee, mentalità e stile l’insegnamento evangelico – di un pensiero ‘sano’ a sostegno dell’azione, di una prospettiva antropologica che non sia riduttiva né trascuri alcunché di ciò che è umano.
  • Il valore decisivo della fede, quale tessuto connettivo della vita e della società, e della preghiera, antidoto contro la dispersione e la frammentarietà. La profonda vita interiore coltivata da Armida Barelli, la comunione costante con Dio alimentata nella preghiera, nei sacramenti e nell’adorazione eucaristica, sono il segreto della sua vita: della molteplicità di opere ma anche della pacatezza e forza d’animo, della calma e dell’equilibrio che la caratterizzano (raggiunti con un grande ‘lavoro’ interiore), della capacità di discernimento e di ascolto dell’altro, individuando qualità e talenti.
  • La ricchezza e fecondità, spirituale e umana, della spiritualità francescana, che ella incarna come un abito naturale, ma di cui p. Gemelli – che ne ha teorizzato e sintetizzato in modo eccellente i tratti nel volume Il Francescanesimo – l’ha resa cosciente.

Armida Barelli costituisce un esempio emblematico di santità laicale fuori dal chiostro e dagli spazi riservati. È testimone della santità radicale che nel Battesimo apre a tutti la possibilità della sequela di Cristo per farsi accanto a ogni persona nelle pieghe della storia. La dimensione religiosa unifica e indirizza tutte le sue dimensioni della sua vita e la qualifica come una tra le protagoniste più eminenti del rinnovamento spirituale che caratterizza la storia religiosa d’Italia nella prima metà del Novecento.

L’originalità di Armida Barelli consiste nella capacità di superare il contrasto tra la religiosità, vissuta come una serie di rinunce e privazioni, appesantita da un’ascesi ‘inumana’, e il profondo desiderio di Assoluto che le arde nel cuore. A motivo di questo suo profondo desiderio di Assoluto ha accolto con gioia la proposta di p. Gemelli di abbracciare la santità francescana, “la più alta e la più difficile, perché non uccide l’uomo, ma lo lascia vivere e lo fa santo nella sua qualità di uomo”.

Una santità appassionata e femminile che trova il suo fulcro nel Sacro Cuore: non si tratta di devozionismo ingenuo, ma di consapevolezza, teologicamente fondata nel dogma dell’Incarnazione, dell’assolutezza dell’amore divino, che è entrato nella storia, quotidianamente si fa storia e va reso presente nella cultura (nelle idee, nel modo di pensare e progettare), nella società e nella politica, per essere collaboratori e promuovere l’attuazione del Regno. Un modello di perfezione che affascina e attrae, perché non rifiuta nulla di ciò che è umano, ma francescanamente tutto rinnova e fa risplendere nella luce dell’amore divino. È questa santità quotidiana e laica capace di coniugare preghiera e azione, spiritualità e impegno, che Armida Barelli invita a riscoprire e valorizzare: una santità ‘in uscita’, che abbandoni la quiete delle sacrestie e scenda nelle piazze della politica, della cultura, della società, per evangelizzarli, coniugando e facendo dialogare Vangelo e mondo, preghiera e competenze professionali, superando le dicotomie. Una testimonianza che invita alla radicalità, alla riflessione e al serio discernimento, nella convinzione che il Vangelo promuove e perfeziona l’uomo, che ciò che è cristiano è anche pienamente umano, perché la grazia non distrugge ma perfeziona la natura.

Una spiritualità inclusiva e accogliente, luminosa, di ampio respiro, che porta il Vangelo nei luoghi dell’umano, fa risplendere il Regno di Dio nel Regno dell’uomo, che nell’amore abbraccia e trasfigura anche la sofferenza e il dolore. È forse questa la sintesi più radicale che Armida è riuscita a realizzare al culmine della sua vita, che ha raggiunto la piena verità nel dono totale delle propri fragilità, limiti e paure, superando, grazie alla fiducia nel Sacro Cuore, anche la paura più radicale e spaventosa, quella della morte, come testimonia p. Gemelli, che l’ha accompagnata anche in questo ultimo tratto di cammino:

La morte perde il suo orribile volto per creature così preparate dal Divino artefice; Armida Barelli quando con la mano mi salutò per l’ultima volta, poche ore prima di morire, sorrise. Forse il Signore le aveva già fatto capire che l’attendeva di lì a poco la gioia di vederlo faccia a faccia. Ed era questo il compenso di una vita spesa esclusivamente per lui[6].

L’esempio di Armida invita ancora oggi ogni battezzato a interrogarsi sulla propria chiamata a incarnare il Vangelo nelle pieghe della storia. Una storia piena di contraddizioni e incoerenze, ma già salvata, perché profondamente amata; una storia che, tuttavia, bisognosa di attualizzare e rendere operante questa salvezza, chiede ai cristiani di esserne artefici, diventando ‘artigiani’ di speranza, testimoni credibili del Regno[7].

 

[1] M. Sticco, I nostri Fondatori: due grandi francescani, in Sulle orme di Francesco, a cura del Consiglio centrale dell’Istituto secolare delle Missionarie della Regalità di Cristo, Roma 1981, 46.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem.

[4] Cf. ivi, p. 47.

[5] Cf. ibidem.

[6] Ivi, p. xli.

[7] Per approfondire: A. Picicco, Armida Barelli, Padova 2007; M. R. Del Genio, Armida Barelli. Un’esperienza di mistica apostolica laicale, Città del Vaticano 2002; Ead. Donne nuove. Armida Barelli tra le donne del suo tempo, Torino 2021; B. Pandolfi, Vivi una vita piena. Armida Barelli scrive ai giovani, Roma 2021; Ead., Armida Barelli. Una donna oltre i secoli. Con DVD, Roma 2014; M. Serafini (a c. di), Agostino Gemelli e Armida Barelli. Una sintesi francescana per l’Italia, sez. monografica della rivista Convivium Assisiense (XXIII/1 [2021]), Assisi 2021.

Un’altra curiosità su Armida e santa Rosa

Padre Pietro Messa ci ha segnalato questa citazione tratta da E. Preziosi, La zingara del buon Dio. Armida Barelli, storia di una donna che ha cambiato un’epoca, prefazione di papa Francesco, Cinisello Balsamo 2022, p. 176, nota 92:  
“Per il  santuario di Loreto Armida avrà un’attenzione speciale, tanto che vi è una cappella dedicata, la quinta laterale della navata destra, che nel 1933 fu decorata dal pittore Tino Ridolfi (1886-1956) con le giovani sante patrone della Gioventù Femminile: sant’Agnese, santa Rosa da Viterbo e santa Giovanna d’Arco, la beata Imelda Lambertini, Maria Bambina e santa Teresa del Bambin Gesù, nel 1953 sostituita, dopo la canonizzazione, da santa Maria Goretti”.
Un video della cappella dell’Immacolata nella Basilica lauretana – in cui s. Rosa da Viterbo è denominata erroneamente “da Lima” – in questo video.

CTE 2022

Un applicativo comune come Microsoft Word non soddisfa le esigenze specifiche di filologi, paleografi, diplomatisti, che sovente incontrano problemi nel gestire i propri lavori o sono sottoposti a snervanti e meticolose correzioni di bozze. Diversamente, Classical Text Editor (CTE) può gestire diversi livelli di apparati e note critiche, gli indici e testi in scritture sinistrorse (come ebraico e arabo).

OBIETTIVO

Le lezioni mirano ad approfondire la conoscenza del programma CTE. La parte teorica si accompagnerà immediatamente con la pratica per permettere di prendere confidenza con l’applicativo. Verranno fatte esercitazioni mirate, da svolgere in classe e autonomamente. Finalità del corso è quella di costruire il modello di lavoro secondo le proprie esigenze testuali e critiche.

Visto il carattere fortemente individualizzato la partecipazione è a numero chiuso: massimo 15 persone. Le lezioni si svolgeranno online sull’applicativo Zoom.

Verrà approntata una classe virtuale dedicata per la condivisione dei materiali didattici e la messa a disposizione delle lezioni registrate sulla piattaforma e-SPeS con un forum per facilitare l’interazione con il docente.

PROGRAMMA

Orario: 16.30-19.30

MODULO BASE

Lunedì 30 maggioInstallazione (Win e Mac) – release – licenze – ambiente di prova – finestre di lavoro – visualizzazione di stampa – importazione file di testo – templates – salvataggio e formati

Venerdì 3 giugnoLayout pagina semplice, a colonne – margini e paragrafo – sezioni e capitoli – intestazione e piè di pagina 

Giovedì 9 giugno: Apparati e note (setting) – macro – sillabazione 

Lunedì 13 giugno: File associati – sincronizzazione – inizio costruzione di un template personalizzato

MODULO AVANZATO

Lunedì 20 giugno: Funzioni di layout pagina – setting apparati e note – file associati e sincronizzazione

Giovedì 23 giugno: Creazione indici – lavorare con grafici e immagini – bibliografia

Lunedì 27 giugno: Sigle dei manoscritti – finestra di collazione (new)

Giovedì 30 giugnoCostruzione di un modello personalizzato avanzato in base al proprio testo da editare

MODALITÀ DI ISCRIZIONE

Le iscrizioni dovranno pervenire attraverso questo modulo entro il 22 maggio 2022.

Prima dell’inizio delle lezioni gli iscritti saranno inseriti in una classe virtuale dedicata sulla piattaforma e-SPeS, in cui avranno a disposizione i materiali didattici, le registrazioni e le esercitazioni.

Contributo

Il contributo per il corso è di 150 € per un solo modulo, di 200 € per chi frequenta entrambi. Prima dell’inizio delle lezioni gli iscritti saranno contattati con le istruzioni necessarie per il versamento del contributo e il perfezionamento dell’iscrizione.

È previsto un attestato di partecipazione.

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