Le nostre convenzioni

A cura di Luca Polidoro

A conferma del fondamentale legame con il territorio di Viterbo, il Centro Studi Santa Rosa da Viterbo ha recentemente siglato importanti accordi con due importanti istituzioni della città.

Il primo è il protocollo di intesa per attività di collaborazione presso l’Archivio di Stato di Viterbo, sottoscritto tra il presidente del Centro, prof. Attilio Bartoli Langeli, e il direttore dell’Archivio, dott. Angelo Allegrini, con l’obiettivo di promuovere la valorizzazione del patrimonio archivistico conservato presso l’Istituto, nonché di realizzare attività didattiche nei settori della paleografia, della diplomatica, dell’archivistica e dell’edizione ed esegesi delle fonti. È altresì prevista la condivisione di iniziative scientifiche e progettuali, di ricerca e di consulenza, in particolare per l’elaborazione e la pubblicazione di ricerche, studi e dossier, anche multimediali, come pure la partecipazione congiunta a programmi di ricerca nazionali e internazionali.

Il secondo è la convenzione sottoscritta lo scorso 10 marzo dal presidente del Centro e dal presidente del Consorzio per la gestione delle biblioteche provinciale “Anselmo Anselmi” e comunale degli Ardenti, dott. Paolo Pelliccia, è relativo al patrimonio archivistico e bibliografico dell’istituto, che conserva, oltre a preziosi fondi librari (manoscritti, incunaboli, cinquecentine, seicentine), l’archivio storico del Comune di Viterbo, complesso documentario ricchissimo nonostante le distruzioni e le dispersioni subite nel corso dei secoli, comprendente esattamente 4.148 pergamene (la Biblioteca Consorziale ha recuperato, in questi anni, tre pergamene) eterogenee per forma e contenuto. Tale cospicuo fondo, sommariamente descritto nel Catalogo delle Pergamene Sciolte, compilato più di un secolo fa dalla Commissione appositamente istituita dal Municipio per il riordino dell’Archivio Storico Comunale, attende dunque la realizzazione di un nuovo inventario redatto secondo criteri scientifici e auspicabilmente la regestazione, nonché la digitalizzazione delle singole pergamene. La sinergia tra le competenze del Centro e quelle del Consorzio consentirà dunque in primo luogo quegli interventi di catalogazione del patrimonio librario e di inventariazione di quello archivistico che costituiscono imprescindibile punto di partenza per il successivo approfondimento, studio e divulgazione della documentazione, riconnettendo la comunità locale e poi il più ampio pubblico a tali fonti culturali nel senso più ampio, favorendo l’investigazione sulle identità e sulle relazioni tra persone e luoghi. A tale scopo è infatti prevista l’organizzazione di seminari, conferenze, incontri di studio, lezioni tematiche, presentazioni di libri e convegni, unitamente alla collaborazione nella redazione della rivista Biblioteca e Società e nell’allestimento di mostre.

Video della firma della convenzione con la Biblioteca Consorziale di Viterbo

Discorso tenuto in questa occasione da Attilio Bartoli Langeli

L’occasione è per me così importante che leggerò un testo scritto. Non la si prenda per pedanteria, ma come una forma di rispetto per i miei interlocutori e per chi ci ascolta. E’ un omaggio che faccio alle mie personalità di riferimento in questo campo, cioè Roberto Abbondanza, Pietro Scarpellini e Gherardo Ortalli.

Nella politica dei beni culturali oggi prevale una logica mercantile. Agli occhi di chi ci governa il patrimonio storico, artistico e naturale si propone sempre più come una realtà non da preservare e difendere ma da sfruttare. Ricordiamo come si è impiantata e diffusa, nella nostra classe politica, quest’idea.

Negli anni Settanta Mario Pedini, ministro della cultura, teorizzava che i beni culturali sono il nostro petrolio. Poi gli Ottanta e l’invenzione dei giacimenti culturali di Gianni De Michelis. Poi la cartolarizzazione, estesa (con tutte le cautele, ma estesa) ai beni culturali, per definizione inalienabili.

Un’idea che trovava ricetto anche nelle sedi istituzionali più alte. Aderendo nel 2012 al Manifesto per la cultura lanciato dal Sole 24 ore il presidente Giorgio Napolitano scrisse: «Se vogliamo più sviluppo economico, ma anche più occupazione, bisogna saper valorizzare, sfruttare fino in fondo la risorsa della cultura e del patrimonio storico-artistico». Ecco la bandiera dello sfruttamento fino in fondo. Un teorema perfetto, tra petrolio e giacimenti e sfruttamento.

Per carità: se Caravaggio porta un bel ristoro, come si dice oggi, al bilancio del Ministero, ben venga. Ma piegare a questa logica l’intera politica dei beni culturali sarebbe cosa assai negativa. Non voglio insistere, oggi che parliamo della Biblioteca degli Ardenti e degli archivi che essa conserva, in primis l’Archivio storico del Comune di Viterbo, sulla “povertà” dei beni archivistici e librari. Povertà, sia inteso, rispetto a quei beni culturali che attraggono le folle. Il vittimismo e i complessi d’inferiorità non portano da nessuna parte. La salvezza vera di questi beni è un altro modo di pensare i beni culturali nel loro complesso.

Dichiarava nel 1986 la Corte Costituzionale che la «primarietà del valore estetico-culturale (…) non può essere subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici» e anzi, horribile dictu, diceva che la stessa economia deve ispirarsi alla cultura. Dichiaravano quel modo di pensare due altri Presidenti della Repubblica. Carlo Azeglio Ciampi nel 2003: «La cultura e il patrimonio artistico devono essere gestiti bene perché siano effettivamente a disposizione di tutti, oggi e domani, per tutte le generazioni. La doverosa economicità della gestione dei beni culturali, la sua efficienza, non sono l’obiettivo della promozione della cultura, ma un mezzo utile per la loro conservazione e diffusione». E Sergio Mattarella nel 2017: «Siamo custodi di un patrimonio straordinario, unico al mondo. Un tesoro che trae origine dalla nostra storia, dalla creatività, dalla cultura, dai territori, dalle comunità che l’hanno forgiato e incrementato nel tempo. (…) La fruizione dei beni e delle attività culturali è un valore e ha carattere pubblico».

In parole povere: i beni culturali non servono per far soldi. Sono i soldi che servono per un buon governo dei beni culturali. E le biblioteche e gli archivi sono lì per dimostrare, proprio in quanto beni “poveri”, la natura profonda, civile e nazionale, del patrimonio culturale. La non-economicità dei beni librari e archivistici ne fa i simboli più puri, meno condizionali dei beni culturali (al plurale) come bene comune (al singolare): come unico, totale, indivisibile bene comune. La consapevolezza dei beni culturali come bene comune si misura dal comportamento dello Stato non verso le punte di eccellenza, non verso le supreme evidenze archeologiche e artistiche, ma, per esempio, verso le biblioteche, verso gli archivi. Verso cioè quell’insieme enorme di libri e documenti che essi, biblioteche e archivi, conservano: libri e documenti alti e bassi, belli e brutti, importanti e umili. E’ questo insieme puntiforme, questi milioni di scritture a costituire quel tessuto continuo, quello spessore profondo, quel fondamento forte e diffuso sui quali si costruisce la cultura e la memoria di un Paese.

Se tutto questo è vero e condiviso, specialmente da chi ci governa, ben volentieri il Centro studi Santa Rosa da Viterbo si mette all’opera per rinforzare e valorizzare, cioè, quanto a noi, studiare e catalogare e pubblicare, quel patrimonio culturale cittadino e nazionale che è la Biblioteca degli Ardenti.