Archivi categoria: Strenne da Viterbo

Panis et perna. Mostra documentaria

a cura di Alexa Bianchini, Romina De Vizio e Lucia Malvinni

Anche quest’anno il Centro Studi Santa Rosa da Viterbo partecipa alle Giornate di valorizzazione del patrimonio culturale ecclesiastico “Oltre lo scivolo. Beni culturali ecclesiastici: dall’accessibilità all’inclusione” che si svolgono dal 13 al 21 maggio, con l’apertura di una mostra che espone alcuni documenti dell’archivio del monastero romano di San Lorenzo in Panisperna.

“Panis et Perna” è un breve percorso documentario che racconta la vita liturgica, ma non solo, vissuta all’interno del Monastero in particolare nel giorno di festa del Santo. I documenti esposti, di età moderna e contemporanea, sono parte integrante dell’Archivio di San Lorenzo in Panisperna conservato presso l’Archivio Generale della Federazione Clarisse Santa Giacinta Marescotti. Nata per promuovere i valori della vita contemplativa clariana, la Federazione comprende alcune istituzioni monastiche toscane e laziali, tra cui anche l’omonimo Monastero.

Le fonti messe in mostra sono soprattutto di tipo liturgico, contabile e cronachistico ma l’archivio conserva anche altre tipologie documentarie attraverso le quali è possibile conoscere i vari aspetti della vita contemplativa, devozionale e attiva delle monache del venerabile Monastero.

La mostra è aperta dal 17 al 19 maggio dalle 10 alle 14 e tutti i mercoledì successivi sempre dalle 10 alle 14.

Nel mistero pasquale: un senso al passaggio

a cura di Angelo Sapio

Nell’ormai secolarizzata cultura occidentale due sono le festività cristiane che hanno meglio retto all’urto dei tempi, seppur profondamente alterate nel loro significato intrinseco, in quanto spogliate della propria valenza spirituale in funzione delle nuove esigenze proprie della moderna civiltà globale. Si tratta ovviamente del Natale e della Pasqua, le quali, grazie al forte richiamo evocativo che hanno saputo mantenere, si sono riadattate in chiave laica alla contemporaneità, permettendo allo stesso tempo di tramandare un patrimonio fatto di virtù e di doti morali ancora valide per il presente.

Diversamente dal Natale, la Pasqua è riuscita peraltro a conservare un’aura di maggiore neutralità, una sua immagine austera in cui il credente sperimenta meglio raccoglimento e contemplazione senza eccessive interposizioni.

Essa vanta inoltre una preesistente tradizione all’interno del culto ebraico, l’antica Pasqua, Pesach, in cui tutt’oggi viene celebrata la liberazione degli Ebrei dall’Egitto. La parola Pesach, che significa “passare oltre”, deriva dal racconto della decima piaga nella quale il Signore comandò agli Ebrei di segnare con il sangue dell’agnello le porte delle case di Israele permettendo allo sterminatore di “andare oltre” colpendo così solo le case degli Egizi e, in particolar modo, i primogeniti maschi degli Egizi, compreso il figlio del faraone (Esodo, 12,21-34). Pesach indica quindi la liberazione di Israele dalla schiavitù d’Egitto e l’inizio di una nuova libertà con Dio verso la terra promessa.

Con l’avvento del cristianesimo, la Pasqua ha acquisito un nuovo significato, indicando il passaggio da morte a vita per Gesù Cristo e il passaggio a vita nuova per i cristiani, liberati dal peccato con il sacrificio sulla croce e chiamati a risorgere con Gesù. La Pasqua cristiana che è quindi Pasqua di Risurrezione, è la chiave interpretativa della nuova alleanza, concentrando in sé il significato del mistero messianico di Gesù e collegandolo al Pesach dell’Esodo. Ponendo al centro la vicenda di Gesù, morto nel venerdì precedente la festa ebraica e risorto il giorno successivo, i cristiani leggono nella narrazione della Passione, l’avverarsi delle Scritture.

Dal punto di vista teologico, la Pasqua racchiude in sé tutto il mistero cristiano: con la Passione Cristo si è immolato per l’uomo, liberandolo dal peccato originale e riscattando la sua natura ormai corrotta, permettendogli quindi di passare dai vizi alla virtù; con la Risurrezione ha vinto sul mondo e sulla morte, mostrando all’uomo il proprio destino, ovvero la risurrezione nel giorno finale, ma anche il risveglio alla vera vita. Tutti questi concetti, oggi forse di difficile comprensione se rapportati alla complessità delle nostre azioni quotidiane, forniscono tuttavia un’occasione importante alle nostre riflessioni esistenziali.

Nell’arco della Settimana Santa precetti e riti della tradizione popolare si alternano e si sovrappongono in un insieme unico di esperienze individuali o condivise che spaziano dalla rinuncia alla preghiera, dall’attesa alla partecipazione, dalla vicinanza al ritiro. E’ il momento dell’anno per eccellenza in cui più si riflette sul mistero della vita e della vita oltre la morte.

In ogni epoca l’essere umano ha sempre cercato di fare i conti con la sua “finitezza”, che è una condizione analoga a tutte le altre forme viventi presenti sul pianeta, provando da un lato a prolungare la sua presenza terrena e dall’altro a intravvedere un “oltre” che possa dare un senso a quanto abbiamo costruito da vivi…

Sin dall’antichità il culto dei morti ha sempre esercitato una certa influenza all’interno della civiltà umana. Nel mondo romano e preromano ad esempio, era usanza seppellire i propri defunti all’interno di sarcofagi decorati da figure riferibili al mondo del mito: queste erano spesso utilizzate per descrivere le diverse qualità del defunto, o più in generale per alludere alla felicità dell’oltretomba attraverso la rievocazione di un mondo sereno e felice. Al loro interno veniva poi riposto un corredo funebre consono al rango sociale della famiglia. In talune circostanze, come nel caso della necropoli romana rinvenuta al di sotto delle grotte vaticane, le sepolture venivano realizzate con delle cavità attraverso le quali poter continuare a “nutrire” le salme dei defunti. Queste pratiche denotano la volontà degli individui a non separarsi mai totalmente dalla corporeità di chi li ha preceduti.

Nel 1889, durante i lavori di scavo per le fondazioni del Palazzo di Giustizia di Roma, vennero alla luce diversi reperti archeologici, tra i quali due sarcofagi ancora sigillati intitolati a personaggi della stessa famiglia: Crepereia Tryphaena, una giovane di circa vent’anni ed il padre Crepereius Euhodus, oggi conservati presso la ex Centrale Montemartini. Il corredo funebre, presente solo nel sarcofago di Tryphaena, appariva molto ricco di ornamenti d’oro e deposta accanto al suo scheletro vi era una bambola d’avorio, inizialmente creduta di legno di quercia, di pregevole fattura e snodabile in alcune articolazioni. Tryphaena fu identificata come una fanciulla vissuta nella metà del II secolo d.C. che si presentò agli occhi dei Romani accorsi alla notizia dell’eccezionale ritrovamento come una divinità fluviale. All’apertura del sarcofago infatti, la giovane donna, sommersa nell’acqua proveniente dal vicino Tevere, appariva come una ninfa, come testimoniò l’archeologo Rodolfo Lanciani presente agli scavi:

«Tolto il coperchio, e lanciato uno sguardo al cadavere attraverso il cristallo dell’acqua limpida e fresca, fummo stranamente sorpresi dall’aspetto del teschio, che ne appariva tuttora coperto dalla folta e lunga capigliatura ondeggiante sull’acqua. La fama di cosi mirabile ritrovamento attrasse in breve turbe di curiosi dal quartiere vicino, di maniera che l’esumazione di Crepereia Tryphaena fu compiuta con onori oltre ogni dire solenni, e ne rimarrà lunghi anni la memoria nel rione Prati. Il fenomeno della capigliatura è facilmente spiegato. Con l’acqua di filtramento erano penetrati nel cavo del sarcofago bulbi di una tal pianta acquatica che produce filamenti di color d’ebano, lunghissimi, i quali bulbi avevano messo di preferenza le loro barbicine sul cranio. Il cranio era leggermente rivolto verso la spalla sinistra e verso la gentile figurina di bambola…»

Tra gioielli di Tryphaena fu ritrovato al dito della giovanetta un anello con incisa la parola “Filetus” che fece immaginare al poeta Giovanni Pascoli che fosse il nome del suo promesso sposo mancato poiché la presenza della bambola nel corredo funebre faceva pensare che fosse morta alla vigilia delle nozze non avendo fatto in tempo a donare i suoi giocattoli agli dei per la cerimonia di “addio all’infanzia”.

L’età della fanciulla ricorda in qualche modo Rosa da Viterbo, morta giovanissima e seppellita presso la chiesa parrocchiale di S. Maria in Poggio. A pochi anni di distanza, il corpo venne dissepolto e rinvenuto intatto, secondo talune tradizioni popolari assieme ad una manna profumata o ad un fascio di fiori freschissimi, prima di essere traslato al vicino Monastero delle Damianite. Le spoglie di s. Rosa, giunte sino a noi dopo otto secoli, confermano il legame vivo ancora oggi di un’intera comunità con la testimonianza fisica della sua patrona.

Curiosamente, proprio di fronte alla chiesa di S. Maria in Poggio, oltre quella fontana che è stata testimone di vita quotidiana di Rosa, vi è un antico palazzetto di epoca rinascimentale appartenuto alla famiglia Nini che presenta una particolare “anomalia”. A fianco al portone d’ingresso appare traccia ben visibile di una porticina secondaria murata, che sarebbe ascrivibile alla singolare usanza della “Porta del Morto”. Secondo alcuni studiosi, queste porticine non avevano alcuna finalità difensiva, ma celano un significato di tutt’altro tipo, legato alla superstizione e alle tradizioni funebri medievali. Per i sostenitori di questa ipotesi, infatti, tali porte venivano utilizzate esclusivamente per far uscire le salme dei familiari defunti: esse venivano aperte soltanto quando si verificava un lutto in famiglia e restavano murate per il resto del tempo. Quindi le Porte del Morto avevano un significato difensivo non contro gli attacchi dei vivi, ma contro la Morte stessa, come se grazie a questo stratagemma essa potesse soltanto uscire dalla casa (con i piedi in avanti) senza potervi poi rientrare.

Oggi grazie al progresso tecnico-scientifico siamo giunti, a volte a scapito del resto dell’ecosistema di cui facciamo parte, ad ottimizzare le condizioni per il massimo godimento della nostra vita, a bearci dei benefici raggiunti, a saper governare gli ostacoli naturali che possiamo incontrare strada facendo e dunque ad interpretare la nostra vecchiaia non come il tramonto di questo nostro percorso terreno, ma come il miglior mantenimento possibile dei nostri presupposti. Inconsciamente quindi l’uomo considera come principio primo e assoluto la prosecuzione della vita fisica come una “cristallizzazione” della stessa e non come transito ad una nuova condizione.

Rimaniamo tuttavia consapevoli della finitezza del nostro tempo, senza esser in grado di accettarlo a pieno. La morte è ancora diffusamente in tutto il mondo lo spauracchio da tenere il più possibile lontano da noi, è la paura principale che ci attanaglia, quando questa si avvicina alle nostre vite o a quelle dei nostri congiunti…quando ci lasciano anzitempo.

Anche Gesù affronta in prima persona questo problema. Nella notte al Getsemani egli vive il suo momento più difficile. In quel frangente testimonia la vera fragilità della condizione umana, che è fatta appunto della naturale paura del morire e della tentazione a fuggirsene via. Consapevole fino in fondo della sua missione, teme tuttavia, come farebbe chiunque altro, il momento di quel fatidico “passaggio”. In una confessione intima afferma ad alta voce:

«Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu».  (Mc 14,36)

Nell’esperienza di Gesù, quell’amaro “calice” costituisce la cifra simbolica della sofferenza e della caducità della nostra condizione. L’istinto biologico di sopravvivenza rifiuta la morte perché la percepisce come il termine ultimo.

Il card. Carlo Maria Martini in una delle sue ultime uscite pubbliche diede la sua personale chiave di lettura definitiva al delicato argomento:

«Mi sono riappacificato col pensiero di dover morire quando ho compreso che senza la morte non arriveremmo mai a fare un atto di piena fiducia in Dio. Di fatto in ogni scelta impegnativa noi abbiamo sempre delle uscite di sicurezza. Invece la morte ci obbliga a fidarci totalmente di Dio. È l’insegnamento di Montini, per me fu un po’ come un padre. Perché ciò che ci attende dopo la morte è un mistero che richiede un affidamento totale».

Concetto in qualche modo analogo lo espresse, in tutto il suo colore, persino il “principe della risata”, anche lui sul finire della sua carriera, rimanendo fino all’ultimo coerente con la sua tagliente ironia:

“Non ho paura di morire. La morte è una cosa naturale e averne paura è da fessi. Io la prima cosa che ho fatto quando ho guadagnato nu poco di soldi è stato comprarmi una cappella a Napoli, per andarci ad abitare da morto…” (Antonio De Curtis, Totò).

Recentemente anche un film d’animazione firmato Disney-Pixar, “Coco” (2017), ha dato un importante contributo sul difficile tema della perdita umana, all’interno della cultura di massa. Esso si ispira alla festività messicana del Dìa de Los Muertos, affine alla nostra celebrazione dei defunti nel giorno che precede la festa di Ognissanti. Con un intreccio fantasioso ma ben ponderato, la storia affronta delicatamente il motivo della morte, sdoganandolo per la prima volta dal classico filone horror americano e dalla blasonata festa di Halloween. Il film insegna che si può e si deve parlare dei defunti ed anzi ricordarli, poiché essi sono con noi anche se non fisicamente presenti. Il bambino protagonista della storia scopre che i morti continuano a “vivere” nell’aldilà proprio tramite il ricordo dei vivi. Se anzi non rimanesse più nessuno tra i vivi a conservarne un pensiero, i morti scomparirebbero definitivamente. Il suo compito è quello di aiutare l’anziana bisnonna a ritrovare il ricordo del padre, morto quando lei era solo una bambina e a riscattarne la memoria di fronte ai famigliari prima che si esaurisca il tempo.

Tra i tanti, meriterebbe anche una menzione speciale lo scrittore cattolico britannico J.R.R. Tolkien, la cui intera opera presenta rimandi continui alla Sacra Scrittura, in particolar modo nel Signore degli Anelli, celebre capolavoro pervaso ovunque da quel senso della fragilità umana che, forse per l’autore, solo in Dio trova compimento e appoggio. E’ ciò che traspare specialmente in un passaggio in particolare: quello in cui lo stregone buono Gandalf il Bianco (già risuscitato a nuova vita in seguito ad uno scontro mortale con un potente demone), magistralmente interpretato da Ian McKellen nella trasposizione cinematografica di Peter Jackson, rifranca il giovane hobbit Pipino, assalito dallo scoramento nella fase cruciale della battaglia per la difesa di Minas Tirith, una sorta di Assisi rivisitata in chiave fantasy, assediata dalle forze del male:

Pipino: “Non credevo sarebbe finita così.”

Gandalf: “Finita? No, il viaggio non finisce qui. La morte è soltanto un’altra via. Dovremo prenderla tutti. La grande cortina di pioggia di questo mondo si apre e tutto si trasforma in vetro argentato. E poi lo vedi.”

P: “Cosa? Gandalf!… Vedi cosa?”

G: Bianche sponde, e al di là di queste, un verde paesaggio, sotto una lesta aurora.”

P: “Be’, non è così male.”

G: “No… No, non lo è”.

Mario Brutti e la Biblioteca del Centro Studi Santa Rosa da Viterbo

a cura di Francesco Nocco, direttore della Biblioteca

Il 4 dicembre del 2020 sono caduti i primi due anni dalla scomparsa di Mario Brutti, noto uomo di cultura, infinitamente innamorato della città di Viterbo, nonostante fosse nato a Milano nel 1936, ma da genitori viterbesi trasferiti in Lombardia per motivi di lavoro.

La vita di Mario Brutti è sempre stata legata a Viterbo, sin dalla formazione scolastica: per ragioni familiari ha abitato anche a Grottaferrata, tuttavia il rientro definitivo in città risale agli anni 2000, periodo nel quale ha ricoperto diversi incarichi e ha seguito numerose attività lavorative e culturali; tra gli impegni a cui si è dedicato non si può non menzionare la pluriannuale responsabilità in qualità di Presidente della Fondazione Carivit, a partire dal 2013.

Non poche sono le realtà a cui ha assicurato vicinanza e sostegno: anche il nostro Centro Studi Santa Rosa da Viterbo è testimone di tanta attenzione, non avendo Mario Brutti mai fatto mancare al Centro Studi il suo contributo di saggezza e umanità: per questo motivo è ancora più carico di significato il gesto che ha voluto compiere la famiglia di donare, dopo il 4 dicembre del 2020, proprio al Centro Studi i libri di Mario Brutti.

Si tratta, con ogni evidenza, di una parte della sua raccolta libraria, un nucleo che conta circa cento volumi, ma che dà adeguatamente prova degli interessi intellettuali e delle curiosità dell’uomo di cultura, annoverando opere che spaziano dalla storia alla sociologia, dal diritto all’economia, non senza una specifica incursione nella produzione religiosa, con scritti spirituali di celebri santi e libri di preghiere, attestazioni che delineano, tra gli altri aspetti, il profilo di Mario Brutti come cattolico profondamente impegnato nella comunità pubblica.

L’arrivo del fondo librario di Mario Brutti ha dato idealmente l’avvio alla nascita della Biblioteca del Centro Studi Santa Rosa da Viterbo, realtà che è stata in via ufficiale istituita nel mese di settembre del 2022, avendo come prima donazione bibliografica già compiuta proprio la raccolta di Mario Brutti.

Questi libri oggi si affiancano alle pubblicazioni, da tempo presenti, edite dal Centro Studi e ad altri nuclei librari nel frattempo offerti dai soci e non solo: le consistenze in crescendo ci spronano a valorizzare e promuovere sempre più questa Biblioteca e a ringraziare ancora una volta tutti coloro che, come i familiari di Mario Brutti, hanno dimostrato e dimostreranno una così grande sensibilità culturale e tanto tributo di stima verso il Centro Studi Santa Rosa da Viterbo.

La “cuppola” di S. Rosa

a cura di Paolo Paganucci

Nel 1850 si conclusero i lavori di rifacimento totale della chiesa, secondo il “Piano di esecuzione del nuovo tempio di S. Rosa di Viterbo” dell’arch. Federici, che determinarono un significativo ampliamento dell’esistente chiesa originale e dei locali di servizio contigui.

L’opera comprendeva anche la realizzazione della «cuppola», che, come da progetto, si trattava di una semplice copertura a quattro falde sormontata da un limitato lanternino. Poiché l’opinione pubblica locale non ritenne tale cupola sufficientemente decorosa e appariscente, nel 1910 l’arch. Arnaldo Foschini presentò un progetto per la costruzione di una nuova cupola più imponente, che avrebbe assunto la forma definitiva ed attuale.

Il progetto, ordinato dal Comitato per i Restauri del Santuario e costituito da «numerose e voluminose» tavole fu approvato nel 1911 dal Ministero di Grazia e Giustizia – Fondo per il Culto e il 05/04/1912 avvenne, con una solenne cerimonia, la posa della prima pietra.

La cupola, realizzata in cemento armato, è composta da un tamburo ottagonale raccordato ai pilastri con pennacchi sferici e da una volta formata da otto costoloni, visibili solo dall’esterno, che comprendono altrettanti spicchi sferici. La lanterna non è comunicante con l’interno. La realizzazione della nuova cupola si completò nell’ottobre del 1914 con la posa di tegole in ceramica smaltata foggiate a squame.

Già nel 1916 però vennero segnalate lesioni sulle strutture murarie della chiesa che furono attribuite alla nuova costruzione ed addirittura il  Fondo per il Culto sollecitò l’Intendenza di Finanza a: «rivolgersi al Comitato per la fabbrica di S. Rosa, a cura del quale ebbe luogo la costruzione della cupola, per chiamarlo a provvedere al risarcimento dei danni derivanti dalla detta costruzione»; anche se tale ipotesi fu vibratamente confutata dal Comitato e dal progettista, ipotizzandone la causa nell’evento sismico del 1915, si dovette procedere a piccoli interventi di restauro.

Il rivestimento in maioliche, nel corso degli anni successivi, fu ritenuto responsabile di infiltrazioni a carattere atmosferico, in quanto le piastrelle smaltate distaccandosi dal supporto andavano a lesionare le tegole dei sottostanti tetti; si decise pertanto di procedere alla sua eliminazione, alla bitumatura delle strutture in cemento armato ed alla realizzazione di una nuova copertura con lastre di piombo, secondo il progetto redatto dall’ing. Fernando Moltoni che curò anche la direzione dei lavori (anni 1931 – 33).

La superficie interessata era di 320 mq ed il peso totale delle suddette lastre era di kg. 19.200, tuttavia poiché la posa delle lastre doveva avvenire previa asportazione dei vecchi embrici e del notevole sottostrato di malta, l’ing. Moltoni prevedeva una riduzione del peso della copertura di circa 150-200 quintali.

Il preventivo di spesa per la sola nuova copertura ammontava a L. 115.000, a cui dovevano aggiungersi “una congrua spesa per la ripulitura della Chiesa, le decorazioni e la pittura della medesima, ecc. cose tutte necessarie per rendere decoroso un Santuario che è oggetto di Fede”, come chiedeva il Moltoni alla Commissione per i lavori della Chiesa di S. Rosa.

Poiché il Fondo per il Culto stanziò per i lavori L. 110.000, per coprire tutte le spese fu necessario reperire altri fondi. Si attivò il vescovo di Viterbo mons. Trenta, il Prefetto e don Alceste Grandori che raccolsero la somma di L. 115.000, la presidente generale della Gioventù femminile della Azione Cattolica Armida Barelli L. 50.000, il Comune di Viterbo L.10.000, si arrivò anche a sollecitare il capo del governo Benito Mussolini che contribuì con L. 2.000. Nel giugno 1933 fu raggiunto l’importo di L. 287.000.

Intanto nel 1932 erano cominciati i lavori, ma prima di procedere alla posa della nuova copertura, si constatò l’estremo degrado dei pilastri e delle pareti della chiesa, ciò determinò necessariamente urgenti interventi di consolidamento e di messa in sicurezza del complesso. Pertanto si dovettero impiegare la maggior parte della somma raccolta in tali interventi anziché nella decorazione interna del tempio.

L’impresa Stoelcker effettuò iniezioni in cemento ed incatenamento con ferri che attraversavano le strutture, in particolare furono fatte «perforazioni ad aria compressa dei quattro pilastri centrali sui quali grava la cupola, lavaggi, invio di colla di cemento, posa dei ferri, ulteriori iniezioni a cemento ad alta pressione …»

Lo stesso lavoro fu fatto anche in altre parti dell’edificio, per le cattive condizioni riscontrate: «dai pilastri centrali si dovette passare a quelli minori, quindi alle pareti, alle volte (in alcune delle quali vennero eseguite delle sottovolte di cemento armato) ed al prospetto. E quest’ultimo meritava di essere consolidato tutto, dal pavimento al tetto, ma le limitate disponibilità di fondi ci permisero di fare il consolidamento fino a circa 4 metri di altezza».

Si passò poi finalmente alla posa della nuova copertura della cupola con lastre di piombo da 3 mm, lunghe da costolone a costolone ed alte 1 m, bullonate le une alle altre con bulloni fatti a colatura di piombo in apposite asole a coda di rondine, ribattitura delle teste e saldatura. Le lastre delle prime file in basso raggiungevano il peso di 250 kg ciascuna, furono utilizzati circa 200 q.li di rame e 1.000 q.li di cemento con il costo di L. 93.000 per la manodopera ed i noleggi, L. 4.000 per il ferro e L. 8.000 per l’energia elettrica di cantiere.

Alla fine dei lavori il costo totale dell’intervento, consolidamento e copertura, ammontò a L. 284.976 e fu realizzato, tranne per due operai specializzati, da maestranze locali che secondo il Moltoni “hanno dimostrato ottima capacità e diligenza pur in opere inconsuete”.

“Angeli e macchine”

Angelo Sapio

La devozione popolare per la Santa di Viterbo, come noto, si esprime massimamente in quell’evento folkloristico e votivo allo stesso tempo che ha luogo la sera del 3 settembre quando i Viterbesi si stringono alle vie attraversate dal trasporto della Macchina di S. Rosa. Quel legame quasi fisico che essi hanno con la loro Patrona e che racchiude tutto il senso di appartenenza alla comunità e ai suoi riferimenti identitari, quella sera viene trasmesso ad un sodalizio di uomini che si fanno carico di “scortare la Santa alla sua casa”, una metafora che si traduce appunto con il trasporto sulle spalle di un centinaio di Facchini di una vertiginosa torre illuminata sulla cui cima svetta la statua di s. Rosa.

Il percorso attraversa i principali assi viari del centro storico partendo dalla Porta Romana fino a giungere al sagrato del Santuario dove sono conservate le Sacre spoglie. Una desueta tradizione popolare ritraeva nel trasporto della Macchina una sorta di parabola della vita della Santa. La partenza avviene infatti presso la piccola chiesa di S. Sisto dove, stando alla suddetta tradizione mai confermata dalle fonti, Rosa avrebbe ricevuto il battesimo e si conclude laddove ella avrebbe voluto vivere i suoi ultimi giorni: quel Monastero che l’aveva prima rifiutata e poi accolta solo pochi anni dopo il beato transito. Il senso storico di questo tragitto discende in realtà dalle evoluzioni che hanno interessato nel tempo quell’antica processione civico-religiosa in onore della Santa che prendeva il nome di Luminaria e che a sua volta celebrava la ricorrenza della Traslazione del Corpo di Rosa avvenuto, sempre secondo tradizione, il 4 settembre del 1258 per volere di papa Alessandro IV.

Istituita nel 1512 con una delibera del Consiglio dei Quaranta del Comune di Viterbo, che intendeva così riconoscere giuridicamente la festa in onore della Patrona della città, dal secolo successivo vide trasferirsi la partenza dalla piazza del Comune alla Porta Innocenziana (Romana) per suggellare quel rapporto di obbedienza che legava Viterbo alla Chiesa. Gradualmente questa processione a cui partecipavano le maggiori cariche civili, oltre che i rappresentanti del mondo del lavoro, ottenne sempre maggior vigore grazie anche all’aggiunta di una struttura lignea mobile, illuminata da candele, contenente l’immagine di s. Rosa, che veniva condotta a spalla da un gruppo di portatori.

L’usanza non era del tutto nuova, sempre più numerosi in quel periodo erano gli altari votivi trasportati durante i cortei religiosi patronali in tutta l’area latina europea. Solo a Viterbo se ne contavano almeno tre (ben noti erano quelli del Santissimo Salvatore e della Madonna Liberatrice), ma il blasone e l’attrattività che caratterizzavano la luminaria di s. Rosa erano tali che assieme alla partecipazione cittadina aumentavano progressivamente anche le dimensioni del simulacro. Presto questo assunse la denominazione di Mole e poi ancora di Mole di Trionfo, Macchina Trionfale o più semplicemente Macchina, ad indicare un imponente complesso strutturale simile a quelli utilizzati per le scenografie delle opere teatrali. Cresceva in dimensioni l’immagine della Santa, cresceva il numero di ceri per illuminarla e così crescevano pure gli elementi decorativi che concorrevano alla creazione di una vera e propria opera d’arte in movimento.

I primi disegni di macchine pervenutici danno testimonianza di come inizialmente si realizzassero dei semplici baldacchini in stile barocco non troppo dissimili da quelli che tutt’oggi si possono osservare nelle città andaluse in occasione delle processioni per la Semana Santa. La rappresentazione di s. Rosa nasceva quindi sotto forma di una statua assisa su di un altare, per poi evolversi nel tempo in un’immagine dipinta racchiusa all’interno di un cupolino. Attorno ad essa man mano facevano la loro apparizione varie allegorie. Si andava dai semplici putti incastonati nei candelabri fino alle personificazioni di virtù teologali, speranza e carità le più riproposte, passando per la raffigurazione di svariati santi o di anonime cariatidi poste sotto a cornici marcapiano a mo’ di sostegno dei diversi livelli della macchina. Non mancavano neppure le rappresentazioni di miracoli o scene di vita della Santa, come la guarigione della bambina cieca o il risanamento della brocca di fronte alla fontana o ancora l’apparizione della Madonna durante la malattia e numerose altre.

 

Tale registro venne mantenuto per lunghissimo tempo nonostante il passaggio a nuovi stili. Col XIX sec. infatti il barocco lasciò spazio alle ordinate linee neoclassiche prima di approdare al ben più evocativo stile gotico, che resistette fino oltre la metà del secolo scorso, nonostante la breve parentesi tardo ottocentesca che rifletteva un certo fascino per il gusto moresco.

Tutte queste fasi, come detto, non tradirono mai il ricorso all’utilizzo di figure intermedie disposte lungo la macchina fino alla cima dove veniva posizionata ovviamente la Santa. Le macchine moderne, a partire dal Volo d’Angeli di Giuseppe Zucchi (1967-1978), si sono nettamente affrancate dai modelli tradizionali che prediligevano una struttura massiccia e spesso sovraccarica di complementi e decorazioni ed hanno piuttosto puntato ancor di più sulla verticalità e sulla scelta di un singolo soggetto peculiare riproposto varie volte su più livelli. Ai generici stilemi neo-gotici venivano ora a sostituirsi elementi connotativi dell’architettura viterbese come fontane, colonne, leoni o le merlature delle mura, ma soprattutto le vecchie figure antropomorfe della macchina perdevano definitivamente sembianze di santi, muse e virtù per assumere quelle di astratte allegorie angeliche. Queste erano ben presenti anche prima a onor del vero; angeli messaggeri con trombe o recanti fiori, ghirlande o coccarde figuravano spesso anche nei modelli dei Papini, di Bordoni o di Spadini, ma dalla seconda metà del ‘900 in poi presero nettamente il sopravvento.

Il primo approccio con la modernità arrivò col modello scelto per l’edizione del 1952 dell’architetto viterbese Rodolfo Salcini, assistente universitario alla facoltà di architettura di Roma La Sapienza, insieme allo scultore romano Francesco Coccia. L’arditezza delle innovazioni introdotte appariva immediata: non più un’infinità di piccole guglie sovrapposte ma un’unica grande guglia dalle linee razionali, una struttura metallica al posto di quella vecchia in legno e un’inedita illuminazione cangiante al neon, che andava a sostituire in gran parte le luci a fiamma viva, per simulare lungo il percorso una pioggia di rose. Polemiche prevedibili a parte, furono però le numerose statue degli angeli a generare il maggior scalpore. Il costruttore Romano Giusti si era avvalso della collaborazione dei maestri cartapestai viareggini, specializzati nelle costruzioni del celebre carnevale della Versilia, per la realizzazione delle allegorie. Forse per incomprensione o per una mal concordata licenza con gli autori vennero eseguite sculture dall’aspetto molto meno ieratico rispetto a quelle a cui i più erano abituati. Angeli quindi in apparenza molto più laici che sacri in un anno in cui Viterbo si apprestava a celebrare i festeggiamenti per i settecento anni dal Transito di s. Rosa.

Riportano così le cronache:

Già le prime indiscrezioni dei corrispondenti dei quotidiani romani avevano rivelato la disinvoltura con cui si erano superate le dotte disquisizioni sul sesso degli angeli per trasformare in floride ragazze quelle che fanno corona alla Santa, quando nell’agosto del 1952 scoppiò la bomba più grossa: il Prof. Coccia chiedeva il sequestro della costruzione perché riteneva che non fossero state rispettate le caratteristiche fissate nel progetto, specialmente per quello che riguardava la parte scultorea. Sebbene si fosse subito rilevato […] che il trasporto della Macchina poteva avvenire anche se essa fosse stata sequestrata ed affidata ad un custode giudiziario, tutta la cittadinanza trepidò e visse giorni di ansia. Finalmente il Prof. Coccia ritirò la sua istanza in attesa del parere di una commissione di artisti di fama internazionale che decidessero della sua asserzione ai fini dell’eventuale indennizzo per i danni morali da lui subiti per la menomazione della sua opera.[1]

Come sempre accade, ogni resistenza venne infine superata e la Macchina di Salcini sfilò per le vie di Viterbo per altre sei edizioni.

Temporaneo ritorno alla tradizione col modello goticheggiante di Angelo Paccosi (1959-1966) e finalmente la storia della macchina volta pagina con l’innovazione introdotta da G. Zucchi. Il suo “Volo d’Angeli” (questo era il nome scelto dall’autore), con un’altezza che superava addirittura i 30 metri, proponeva per la prima volta un “testo narrativo” semplice e diretto che ottenne subito un notevole consenso di pubblico. Si trattava per l’appunto di una colonna di quattro ordini di angeli (poi portati a cinque negli anni successivi) che elevavano in volo la Santa come su di un grande zampillo d’acqua. Gli angeli di Zucchi erano imponenti e comunicativi nonostante fossero disposti con le spalle rivolte al pubblico. In un’intervista a Quirino Galli l’autore rivelò:

All’inizio l’avevo messi di spalle [tra di loro] ma non andavano bene e gira gira li misi abbracciati: ricorderanno i paracadutisti quando si lanciano come quelli che stavano a Viterbo e spesso andavo a vederli quando si esercitavano. La macchina fu ispirata da quello che fece la Divisione Folgore, cose inaudite, contro i carri armati inglesi. […] Gli ultimi paracadutisti che partirono, compreso il generale comandante e lo Stato Maggiore, andarono a S. Rosa a chiedere la grazia e non chiesero né di vincere, né di ritornare, ma che a loro non mancasse l’onore”. […] Si recarono a visitare Santa Rosa a mezzanotte: le suore dovettero aprire appositamente la Chiesa per quell’incontro. [2]

L’idea primigenia di questo stuolo angeli gli venne suggerita inizialmente dal figlio Luigi, all’epoca appassionato lettore delle avventure degli “uomini-falco” di Flash Gordon, eroi dei fumetti americani creati dalla fantasia di Alex Raymond, divenuti strisce di successo anche in Italia. Furono queste creature ibride e visionarie a colpire l’immaginario dell’autore della Macchina per la loro possibile associazione con i paracadutisti della Folgore ed un tipo di lancio che questi ultimi effettuavano, chiamato appunto “salto a volo d’angelo”. Interessante dunque la lettura finale che ne dà Antonio Riccio nel suo Saggio Antropologico:

Gli angeli in volo erano quindi la «trascrizione occulta» della nuova macchina viterbese, trasformata in un ex-voto a testimonianza dell’onore salvato dei paracadutisti italiani caduti ad El-Alamein. [3]

Anche il modello successivo, “Spirale di Fede” di M. Antonietta Palazzetti Valeri (1979-1985), puntò su un soggetto semplice ed intuitivo: una sottile spirale merlata che si avvitava verso l’alto fino ad innalzare al cielo la statua della Santa. Anche in questo caso erano presenti degli angeli ma, seppur in numero cospicuo, consistevano in bassorilievi di piccole dimensioni che, come nei vecchi modelli, concorrevano a comporre l’insieme dell’opera. Più vistosi invece erano i leoni alla base che catturavano immediatamente l’attenzione dell’osservatore.

Discorso similare anche per “Armonia Celeste” del duo Joppolo-Antonini (1986-1990) dove un maestoso leone faceva sfoggio di sé su un’imponente base frutto di una fortunata sintesi tra gli scorci più caratteristici della Viterbo medievale. Al di sopra di questa un vortice di angeli musicanti si sprigionava portando in gloria la Santa. In questo caso i bassorilievi degli angeli avrebbero dovuto ricoprire un ruolo molto più preminente essendo essi stessi a costituire quel vortice ascendente, ma in realtà l’opera definitiva non corrispose perfettamente al bozzetto originale degli autori, in quanto le allegorie risultarono troppo poco pronunciate ed anche l’illuminazione finì per risentirne.

Il leone simbolo di Viterbo sembrò spodestare per un certo periodo l’egemonia dell’angelo come figura chiave all’interno della Macchina prima di perderne nuovamente il primato. Nell’onirica “Sinfonia d’Archi” di Angelo Russo (1991-1997), sotto il complesso gioco di curve che arrivava fino alla cima trovavano spazio unicamente due leoni semi-antropomorfi ispirati a quelli in peperino che svettano su due stele in Piazza del Plebiscito.

 

Tertio Millennio Adveniente – Una Rosa per il Duemila” (Cesarini-Andreoli-Cappabianca, 1998-2002) fu il modello che ebbe il compito di scortare la tradizione viterbese verso il futuro e per farlo propose una sintesi originale dei vari stili che avevano fatto la storia della Macchina lungo i secoli. Forse come omaggio all’iconico Volo, due gruppi di angeli abbracciati, quasi in quella stessa posizione, si aggrappavano con le mani attorno ad esili colonnine come a voler raggiungere la Santa nella gloria. Interessante la scelta stilistica di queste allegorie dai tratti poco definiti, quasi evanescenti, ma allo stesso tempo capaci di carpire l’attenzione degli astanti. Uno degli angeli infatti guardava alle sue spalle, in direzione del pubblico, con espressione turbata e rapita allo stesso tempo, come a voler comunicare la sua sofferenza.

Il salto definitivo nella modernità arrivò con “Ali di Luce” di Raffaele Ascenzi (2003-2008). Per la prima volta la Macchina aveva delle parti mobili, ali per l’appunto, che potevano aprirsi e richiudersi lungo il percorso attraverso un meccanismo interno. Nonostante un aspetto decisamente avveniristico rispetto ai disegni precedenti, anche qui le allegorie svolgevano un ruolo di primaria importanza. Leoni ed angeli tornavano a compartecipare dell’insieme narrativo della Macchina come a voler rimarcare il legame con le radici identitarie popolari e spirituali della comunità: quattro mascheroni leonini fuoriuscivano da un globo poggiante su una base che recitava il motto araldico della città di Viterbo (“Non metuens verbum leo sum qui signo Viterbum”), mentre tre ordini di angeli rivolti verso l’esterno scandivano i moduli della Macchina fino alla Santa.

 Gli angeli di Ali di Luce non erano angeli qualsiasi, essi di fatti si ispiravano ad una celeberrima opera funeraria dello scultore romantico Giulio Monteverde: l’Angelo della Resurrezione. Si tratta di una statua in piombo realizzata nel 1898 a decorazione della tomba della famiglia De Parri nel cimitero monumentale di Viterbo. La stessa, in realtà, non è altro che una delle numerose copie realizzate dal Monteverde del più celebre monumento funebre per la famiglia Oneto al cimitero di Staglieno di Genova (1882), sempre sua opera[4]. Il soggetto ebbe una fortuna tale da essere riproposto nel tempo da diversi altri scultori nel tentativo di replicarlo, esattamente come accadde anche per il coevo Angelo del Dolore del Cimitero Acattolico di Roma (opera di William Wetmore Story, 1894).

 

 

Innumerevoli versioni sono rintracciabili in Italia e all’estero. Solo per citare alcuni esempi: nella chiesa di S. Agostino di Prato, al cimitero monumentale di Pavia, o a quello di Benetutti in prov. di Sassari, o ancora al Woodlaw Cemetery del Bronx a New York (USA), al Cementerio de Cristóbal Colón a l’Havana (Cuba), al Cementerio Recoleta di Buenos Aires (Argentina) e numerosissimi altri. Definito come un “testimone dell’ambiguo mistero del nulla”, l’Angelo di Monteverde ancora oggi è percepito come un’opera fortemente iconica e accattivante.

In Ali di Luce l’ideatore scelse di utilizzare l’espressività di questo angelo modificandone leggermente la postura a seconda della posizione lungo la Macchina. Gli angeli del primo ordine erano quelli che più si avvicinavano all’opera originale, tendevano infatti a guardare verso il basso ossia al globo su cui poggiavano, come ad osservare il mondo, con le braccia incrociate. Gli angeli del secondo ordine tendevano invece a porre lo sguardo sugli osservatori per interagire con loro ed invitarli a proseguire la visione, abbozzando un sorriso; anche le mani si scostavano leggermente dal petto. Infine, gli angeli de terzo ordine sollevavano il viso verso la Santa, con le mani che cercavano di elevarsi in segno di dono.

A raccogliere il pesante testimone di Ali di Luce fu “Fiore del Cielo” (2009-2014), la creatura di Arturo Vittori e Andreas Vogler che ebbe anche il vanto di essere esposta in un padiglione dell’Expo di Milano del 2015. La misura stilistica cambia radicalmente pur rimanendo l’uso di una certa simbologia di facile comprensione. Ancora una volta angeli e leoni tornavano a compartecipare nella globalità della Macchina; ancora una volta ricorreva il motivo del vortice, qui a significare una colossale torcia floreale ed ancora una volta vi era una tripla ripetizione, in questo caso nelle tre sfere che evocavano la vita della Santa (la sua presenza terrena, la forza della sua fede, l’ascensione al cielo). Tuttavia l’elemento innovativo per cui verrà ricordata questa Macchina fu la cascata di petali di rosa lanciati ogni anno in una particolare fermata del trasporto, una soluzione studiata dagli autori per ottenere una maggiore interazione con il pubblico presente.

L’ultimo modello in ordine cronologico è infine “Gloria”, altra creazione dell’Arch. Raffaele Ascenzi. Inaugurata nel 2015, dovrebbe aver concluso il suo mandato nell’edizione del 2022 dopo la pausa forzata di due anni, causa pandemia. Con Gloria sembra tornare preponderante la tradizione con numerosi elementi gotici che tanto ben si sposano con le attese dei Viterbesi. Non mancano le iconiche bifore che ricordano la loggia del Palazzo Papale, ma anche rosoni, cuspidi, guglie e colonnine tortili, tutte ben assemblate come nella migliore tradizione dei Papini. Ad aver ispirato maggiormente l’autore fu però un oggetto ben noto nella devozione popolare dei Viterbesi verso la loro Patrona: il Reliquiario che contiene il Cuore della Santa[5].

La Macchina ripropone dunque per tre volte in successione il corpo centrale del reliquiario arricchendolo di numerose allegorie. Sotto i pinnacoli, al posto dei santi incastonati nel reliquiario trovano spazio delle candide figure angeliche che sembrano lasciare la loro sede per librarsi in aria. Ognuno di questi angeli porta in mano una pergamena, a simboleggiare l’intercessione dei messaggi che i fedeli rivolgono alla Santa durante l’anno e che vengono raccolti in una teca all’interno del Santuario prima di essere inseriti direttamente nella Macchina il giorno del trasporto. 

Un ulteriore elemento di novità è la comparsa di altre figure antropomorfe nella Macchina, oltre ai classici angeli, come non accadeva da moltissimo tempo. Si tratta di figure maschili che sorreggono le vasche su cui poggiano i primi tre moduli della struttura, come dei moderni Atlanti. Essi vogliono celebrare il sacrificio dei Facchini che da secoli sostengono il peso della loro responsabilità, una sorta di facchini ancestrali. Afferma l’ideatore:

“Sono dei portatori che non vestono i caratteristici abiti del trasporto… Sono facchini senza tempo, con dei turbanti in testa che ricordano il tipico fazzoletto e indumenti che lasciano intravedere alcune parti del fisico…Sono facchini angelici, poiché sono a immediato contatto con gli angeli. Nel quarto modulo scompaiono insieme all’architettura e la Macchina diventa solo un fatto spirituale”.

Le Macchine che erediteranno da Gloria oneri e onori della tradizione viterbese cercheranno misure stilistiche diverse, in accordo col passare dei tempi e delle tecnologie a disposizione, ma con ogni probabilità continueranno ad aver bisogno dell’ausilio di tutti quei simboli, come le mai troppo abusate figure angeliche, che potranno garantirne quel vincolo profondo con le radici umane e spirituali della “festa”.

Ancora ottima la conclusione che scaturisce dal saggio antropologico di Antonio Riccio:

Macchina e Santa (tra loro con-fuse) sono il genius loci, un emblema eccellente che diviene simbolo riassuntivo cittadino, formano un complesso artistico-architettonico che integra fontane, leoni, palme e scene di vita della Santa in una struttura in movimento, un teatro dinamico che ricapitola e assicura la trasmissione dell’ethos comunitario. [6]

 

Lo scrittore Orio Vergani, inviato del Corriere della Sera, di passaggio nel 1935 in una Viterbo lontana e provinciale, ebbe l’occasione di assistere al passaggio della Macchina e ne rimase colpito al punto da definirla di getto un “campanile che cammina”. Tale denominazione ovviamente si prestava puntuale all’aspetto che aveva all’epoca la macchina di Virgilio Papini, ma nonostante il passare degli anni, ancora oggi è così che la Macchina di S. Rosa viene esportata nel mondo.


[1] Sandro Vismara, “Cara Viterbo”. Aspetti, avvenimenti e personaggi nella Tuscia dal 1945 al 1985, Viterbo 2014.

[2] Quirino Galli, “I Facchini e il culto di Santa Rosa”, in “Santa Rosa: tradizione e culto”, a cura di Silvio Cappelli, VIterbo 1999.

[3] Antonio Riccio, “Santa Rosa e i Viterbesi”. Saggio antropologico, Viterbo 2018.

[4] Dall’angelo traspare una forte carica di emotività sensuale che rompe con gli schemi scultorei fino ad allora in voga: sebbene l’angelo regga con la mano destra la tromba del giudizio universale, la sua postura e il suo sguardo imperscrutabile hanno tutt’altro che un aspetto consolatorio, come ci si aspetterebbe da una figura angelica, facendolo apparire per contro lontano e distaccato rispetto all’evento di cui è muto testimone.

[5] Si tratta di un pezzo pregiatissimo in argento cesellato placcato in oro che venne donato al Monastero di S. Rosa nel 1929 dal papa Pio XI, il quale lo ebbe a sua volta in dono da un pellegrinaggio proveniente dal Santuario polacco della Madonna di Częstochowa. Nel 1984 Papa Giovanni Paolo II, in visita al Monastero, ne riconobbe la fattura.

[6] Antonio Riccio, “Santa Rosa e i Viterbesi”. Saggio Antropologico, Viterbo, 2018.

La forza di una fanciulla ordinaria

Filippo Sedda

1° settembre all’imbrunire, sagrato del Santuario di S. Rosa. Un giovane papà tiene in braccio il suo bimbo neonato vestito con la caratteristica divisa da facchino. Poche ore dopo i mini-facchini (ovvero circa 200 ragazzi tra i 6 e i 14 anni suddivisi in tre squadre) trasportano per le vie del Centro storico la mini-macchina di S. Rosa, con uno stop davanti alla chiesa. È vivo e palpitante, quasi tangibile, il senso di appartenenza dei viterbesi a santa Rosa. Si diventa facchini di santa Rosa ancora prima di imparare a camminare, ancora prima di saper pronunciare il nome della santa Patrona.

2 settembre, sagrato del Santuario di S. Rosa. Qualcuno impartisce ordini, perché la folta schiera di figuranti (oltre 300) del Corteo storico si disponga nel giusto ordine per raggiungere e poi accompagnare la solenne processione del cuore di santa Rosa, che dalla Cattedrale arriva al Santuario. Quello che colpisce anche in questa giornata è la presenza di una folta schiera di ragazzi a vestire i panni delle rosine e dei boccioli e di altri personaggi storici. Si tocca con mano nei volti di tutti il desiderio di esserci (soprattutto dopo due anni di fermo) per stare più vicino possibile al cuore della Santa.

3 settembre al tramonto, sagrato del Santuario di S. Rosa. Una folla di spettatori da qualche ora si accalca per conquistare uno spazio che consenta di vivere il trasporto della macchina. La speranza è di poter raccogliere uno sprazzo di luce che la macchina accende per le strade di Viterbo, squarciando il buio che intenzionalmente riempie le vie cittadine. In quel momento ogni singolo partecipante diventa facchino, non perché fisicamente si carica del peso della macchina, ma perché parte di una forza, un sentimento collettivo.

4 settembre all’alba, sagrato del Santuario di S. Rosa. Una processione incessante e continua di persone si inerpica sulla salita per andare a sostare qualche secondo davanti all’urna della Santa, per partecipare a una messa o semplicemente per avere anche quest’anno una rosa a ricordo di questa festa.

Si addice per Rosa la domanda che nei Fioretti frate Masseo rivolge a frate Francesco: «Dico, perché a te tutto il mondo viene dietro, e ogni persona pare che desideri di vederti e d’udirti e d’obbedirti? Tu non sei un bell’uomo nel corpo, tu non sei di grande scienza, tu non sei nobile; onde dunque perché a te tutto il mondo viene dietro?».

La forza di Rosa è come quella di Francesco, è quella di scardinare tutte le logiche umane: la bellezza, la conoscenza, la posizione sociale… È la debolezza di Rosa a conquistare, il suo essere una come tante, non avvenente nel fisico, semplice, quasi anonima per la società. Tuttavia Rosa è riuscita a vivere in modo straordinario la sua ordinarietà.

Seguiamo anche noi l’esempio della nostra Patrona: non possiamo lamentarci di non avere questo e non avere quello, ma occorre che ci impegniamo a essere quello che siamo, fino in fondo.

Buona festa di santa Rosa a tutti!

Apertura straordinaria della cella di Armida Barelli

Il video

In occasione dell’edizione 2022 delle Giornate di valorizzazione del patrimonio culturale ecclesiastico, dal 14 al 22 maggio sarà possibile visitare su prenotazione la cella della beata Armida Barelli presso il Monastero di S. Rosa da Viterbo, preservata dalle monache nella sua forma originaria.

Per un’introduzione alla figura della beata Armida Barelli, al suo legame con santa Rosa e alla sua stanza nel Monastero di S. Rosa ecco il video realizzato da Luca e Renzo Antonelli (regia), Angelo Sapio ed Elisabetta Storcè (testi). 

Per prenotarsi alla visita guidata, occorre obbligatoriamente iscriversi al seguente link: https://forms.gle/ifWU7Gx7er5rEaVN8.
Le visite saranno possibili nei seguenti orari:

lunedì: ore 11

martedì-venerdì: ore 11 e 17

sabato: ore 11, 17 e 18

domenica: ore 10, 17 e 18

Per conoscere meglio la figura di Armida Barelli vi consigliamo anche di consultare gli altri approfondimenti curati dal nostro Centro Studi:

Armida Barelli

In occasione della beatificazione di Armida Barelli, 30 aprile 2022, vi proponiamo un contributo di Marcella Serafini (Istituto teologico d’Assisi), che ha tenuto anche un intervento presso il santuario di S. Rosa a Viterbo il 3 marzo 2022. Qui il video della conferenza.

Francescana, laica, appassionata

C’è un legame profondo e significativo che congiunge Armida Barelli (1882-1952) alla città di Viterbo e alla sua patrona santa Rosa, un legame che si fonda nella comune ispirazione francescana e si traduce per entrambe in apostolato laico, passione civile. L’amicizia con Dio, intensamente vissuta, porta entrambe a vivere la propria umanità nel dono totale, osando con l’audacia dell’amore. C’è anche un altro tassello che congiunge in modo indissolubile Armida alla città di Viterbo: la Gioventù Femminile di Azione Cattolica (GF); è proprio nella chiesa di santa Rosa, infatti, che nel 1868 matura nel giovane viterbese Mario Fani, allora ventitreenne, l’intuizione dell’Azione Cattolica.

Grazie a santa Rosa, a cui era particolarmente affezionata a motivo della comune vocazione francescana, Armida frequenta spesso Viterbo: tiene incontri per la GF, sosta presso il Monastero – chiedendo l’intercessione della giovane santa – e si intrattiene con le monache.

La beatificazione di Armida Barelli, ormai prossima (il 30 aprile), è un dono che la città di Viterbo è chiamata ad accogliere come una responsabilità e un nuovo appello. Ma chi era Armida Barelli? Quale l’attualità della sua testimonianza?

Nata nel 1882 da una famiglia dell’alta borghesia milanese che le ha trasmesso senso del dovere e alti valori civili e morali, Armida mostra sin da bambina un carattere vivace e intraprendente, deciso e piuttosto insofferente verso le regole. È dotata di grandi capacità organizzative e di profonda sensibilità, come dimostra durante gli anni di permanenza presso il Collegio S. Croce di Menzingen, dove era stata mandata dalla famiglia per completare gli studi. Agli anni di collegio risalgono il primo incontro con la spiritualità francescana e con la devozione al S. Cuore.

Conclude gli studi nel 1900, con pieni voti, un’ottima formazione e la conoscenza di tre lingue; il suo progetto di vita è ben chiaro: “O sarò suor Elisabetta missionaria in Cina, oppure madre di dodici figli; ma zitella mai e poi mai!”.

Tale simpatica dichiarazione esprime con chiarezza il carattere della giovane, aperta a grandi ideali e poco incline ai compromessi; lo manifesta nei modi permessi dalla mentalità del tempo, che non prevedeva altra possibilità di vocazione oltre a quella religiosa e matrimoniale. Eppure Armida sarebbe stata pioniera di una strada nuova, inedita, di consacrazione a Dio per la missione, non attraverso la ‘fuga mundi’, ma cercando di colmare la distanza tra ambiti apparentemente opposti e inconciliabili: fede e mondo, religione e scienza, fede e cultura, religione e impegno politico-sociale, portando il mondo a Dio nella preghiera e Dio al mondo attraverso l’apostolato.

L’accoglienza di tale chiamata non è facile per Armida, che deve mediare tra i pregiudizi del tempo e le sue inclinazioni, talvolta incomprensibili persino a se stessa: il rifiuto sempre più consapevole delle proposte di matrimonio, l’attrazione irresistibile verso Dio, una predisposizione innata ad aiutare gli altri. Il suo cammino vocazionale – piuttosto lungo e tormentato – passa attraverso incertezze, crisi e combattimenti interiori, ma trova il sostegno unanime dei sacerdoti che hanno la grazia di accompagnarla.

L’incontro con p. Agostino Gemelli, avvenuto l’11 febbraio 1920, segna una svolta nella vita di Armida. Ella apprezza la concretezza e l’umanità di p. Gemelli; quest’ultimo, da parte sua, è colpito dal ‘candore’ e dalla determinazione della giovane, dal suo desiderio di apostolato, ma anche dalle notevoli capacità umane, organizzative e pragmatiche. Decide così di coinvolgerla nelle sue iniziative, affidandole alcune traduzioni per la Rivista di Filosofia Neoscolastica. Dopo l’incontro con p. Gemelli, tutte le esitazioni vocazionali di Armida scompaiono: entra nel Terz’Ordine Francescano e si consacra a Dio per l’apostolato nel mondo. La loro collaborazione diventa stabile e durerà per 42 anni, fino alla morte di Armida. Il primo frutto di tale azione comune è la consacrazione di soldati al S. Cuore, a cui fa seguito una intensa attività di formazione dei laici, attraverso l’Opera della Regalità, l’Opera Impiegate e una serie di opuscoli sulla liturgia. Una molteplicità di iniziative che scaturiscono da un ampio progetto di formazione cristiana dell’Italia, a tutti i livelli, dalla base (operai, laici, popolo) fino ai vertici intellettuali e politici. Il culmine di tale progetto è l’università Cattolica, inaugurata il 7 dicembre 1921.

Il ruolo di Armida Barelli nella costituzione dell’Ateneo va ben oltre la raccolta di fondi di cui ella è promotrice come cassiera, ma è strettamente legata alla sua straordinaria tenacia e grande fede, manifestata già nel contesto del Comitato fondatore. Ella ha dimostrato di saper sperare  contro ogni speranza e di credere fortemente nella possibilità di realizzazione di quest’opera, sebbene in assoluta povertà di mezzi, solo perché promessa e dedicata al S. Cuore. È merito esclusivo della fede di Armida Barelli se il nome e titolo dell’Ateneo – dedicato al S. Cuore – si sono concretizzati, secondo per una motivazione teologica ben precisa: “il S. Cuore è la sede di ogni sapienza e scienza”. Non è ingenuità, anche se a prima vista potrebbe sembrare, ma fede profonda, biblicamente e teologicamente fondata.

Il progetto culturale promosso in collaborazione con p. Gemelli, si coniuga perfettamente con l’altra impegnativa attività svolta da Armida Barelli nel fondare la Gioventù Femminile prima nella Diocesi di Milano, su richiesta del Card. Ferrari, e successivamente, su esplicita richiesta del Pontefice, di estenderla su tutto il territorio italiano. Armida, che si sente inadeguata per svariati motivi, avanza tutte le possibili obiezioni, ma poi, “solo per amore del Sacro Cuore” e per obbedienza alla Chiesa, accetta. Intraprende così un’opera che avrebbe favorito la formazione umana e cristiana, su tutto il territorio nazionale, di ragazze, e in seguito anche bambine, che altrimenti sarebbero state irraggiungibili dall’azione formativa dello Stato. Il modello antropologico e femminile trasmesso dalla GF costituisce un’alternativa efficace e significativa a quanto propagandato dal Fascismo, tanto da suscitare la preoccupazione del Regime stesso.  

Università, Gioventù Femminile e formazione dei laici, sono opere che Armida Barelli ha potuto realizzare perché radicata in Dio, centro unificatore del suo essere e operare. Questa sua attitudine si concretizza nel 1919, nella fondazione, insieme a p. Gemelli, di una comunità di consacrate secolari – un primo gruppo di dodici sorelle – che avrebbe preso in seguito il nome di Istituto Secolare delle Missionarie della Regalità di Cristo. Il nucleo di tale vocazione è sintetizzato da p. Gemelli con i termini consacrazione (totale appartenenza a Dio), secolare (operando nel mondo), secondo la spiritualità francescana.

L’indole francescana di Armida Barelli è una caratteristica ‘naturale’ di Armida Barelli, come testimoniano p. Gemelli e Maria Sticco. Quest’ultima, docente presso l’Università Cattolica e tra le prime consacrate dell’Istituto secolare da loro fondato, scrive pagine di estrema chiarezza: «In virtù della sua semplicità e fede mirava dritto al fine per la via più breve, non aveva complessi, non si ripiegava su se stessa, semplice e decisa, e perciò veramente libera. Libera da perplessità interiori, libera nelle circostanze, nulla la intimidiva. Libera dal mondo, non curava come frenanti i giudizi altrui. Libera dal dolore, lo considerava nell’amore di Dio a andava avanti. La spiritualità francescana, che corrispondeva alle sue tendenze naturali, lei la sovrannaturalizzò promuovendo la sua semplicità e fede in volontà dinamica e azione costante, che aveva centro vitale nella sua devozione al Sacro Cuore e alla Regalità di Cristo»[1].

Il nucleo centrale e motore della vita di Armida era l’amore con Dio e la comunione con lui, che ella raggiungeva, pur restando immersa nell’azione, attraverso una preghiera trasformante, che sotto i tratti della devozione nascondeva una intensa vita di comunione soprannaturale. Maria Sticco attesta che ella «viveva nella comunione dei santi. Come viveva fra gli uomini, così viveva fra i santi e li interpellava, parlava con loro, come con uomini in cammino»[2].

La preghiera vocale era per lei “avviamento alla contemplazione”: riusciva a vivere la contemplazione «nel cuore dell’azione, contemplazione senza visioni, senza estasi, contemplazione del suo Signore, del suo Cuore, del suo amore incomprensibile e immenso»[3]. La sua vita interiore “era un continuo colloquio con Dio”, semplice e confidenziale, lo sentiva presente in tutti i momenti e attività della giornata. Il lavoro era servizio di Dio e incontro con i fratelli; dalla consapevolezza di operare per i fratelli e quindi di amare i fratelli, obbedendo così al comando evangelico, nasceva la sua calma, l’ascolto attento, tranquillo, il «dominio sereno di sé»[4]. Questa unione continua con gli uomini e con Dio nel lavoro non escludeva il tempo dedicato unicamente alla preghiera; non identificava infatti preghiera e azione né sostituiva la preghiera con il lavoro. Non diceva “lavoro dunque prego”, ma  «nel mezzo del lavoro era sempre unita a Dio, nel cuore dell’azione pregava, avendo sempre vivo e presente nella fede e nell’amore la persona di Cristo»[5].

L’esperienza di Armida Barelli testimonia la bellezza di una vita spesa per Dio, nella limpida consapevolezza che chi si dona e affida a Lui non perde nulla ma tutto riceve. La sua missione incarna in modo sublime alcune predisposizioni della sua personalità, perfettamente armonizzate grazie alla spiritualità francescana, conosciuta grazie a p. Gemelli:

  • L’attitudine alla sintesi tra Dio e mondo, religione e cultura, raccoglimento e impegno socio-politico, preghiera e attività, contemplazione e azione; è un’attitudine a superare separatismi e divisioni per costruire ponti e custodire le relazioni.
  • L’importanza decisiva della formazione: Armida Barelli e p. Gemelli avevano capito il valore imprescindibile della formazione a tutti i livelli (culturale, civile e religioso), in tutti gli stati e condizioni di vita, per favorire dialogo e dinamismo. L’impegno civile e politico è finalizzato a trasformare in vita concreta la Regalità e il primato del S. Cuore.
  • La fiducia nel mondo giovanile, in particolare le ragazze, di cui ella si prendeva cura, attraverso l’ascolto attento e libero da pregiudizi, che consentiva di far emergere da loro doni, talenti, predisposizioni e capacità, dando loro fiducia anche nei casi di maggiore difficoltà.
  • L’intuizione della peculiarità del genio femminile, l’impegno decisivo nel percorso di promozione della donna attraverso l’attività formativa, associativa, di confronto, dialogo e impegno che – soprattutto in quegli anni – risultava profetica.
  • La necessità di una filosofia cristiana – che traduca in idee, mentalità e stile l’insegnamento evangelico – di un pensiero ‘sano’ a sostegno dell’azione, di una prospettiva antropologica che non sia riduttiva né trascuri alcunché di ciò che è umano.
  • Il valore decisivo della fede, quale tessuto connettivo della vita e della società, e della preghiera, antidoto contro la dispersione e la frammentarietà. La profonda vita interiore coltivata da Armida Barelli, la comunione costante con Dio alimentata nella preghiera, nei sacramenti e nell’adorazione eucaristica, sono il segreto della sua vita: della molteplicità di opere ma anche della pacatezza e forza d’animo, della calma e dell’equilibrio che la caratterizzano (raggiunti con un grande ‘lavoro’ interiore), della capacità di discernimento e di ascolto dell’altro, individuando qualità e talenti.
  • La ricchezza e fecondità, spirituale e umana, della spiritualità francescana, che ella incarna come un abito naturale, ma di cui p. Gemelli – che ne ha teorizzato e sintetizzato in modo eccellente i tratti nel volume Il Francescanesimo – l’ha resa cosciente.

Armida Barelli costituisce un esempio emblematico di santità laicale fuori dal chiostro e dagli spazi riservati. È testimone della santità radicale che nel Battesimo apre a tutti la possibilità della sequela di Cristo per farsi accanto a ogni persona nelle pieghe della storia. La dimensione religiosa unifica e indirizza tutte le sue dimensioni della sua vita e la qualifica come una tra le protagoniste più eminenti del rinnovamento spirituale che caratterizza la storia religiosa d’Italia nella prima metà del Novecento.

L’originalità di Armida Barelli consiste nella capacità di superare il contrasto tra la religiosità, vissuta come una serie di rinunce e privazioni, appesantita da un’ascesi ‘inumana’, e il profondo desiderio di Assoluto che le arde nel cuore. A motivo di questo suo profondo desiderio di Assoluto ha accolto con gioia la proposta di p. Gemelli di abbracciare la santità francescana, “la più alta e la più difficile, perché non uccide l’uomo, ma lo lascia vivere e lo fa santo nella sua qualità di uomo”.

Una santità appassionata e femminile che trova il suo fulcro nel Sacro Cuore: non si tratta di devozionismo ingenuo, ma di consapevolezza, teologicamente fondata nel dogma dell’Incarnazione, dell’assolutezza dell’amore divino, che è entrato nella storia, quotidianamente si fa storia e va reso presente nella cultura (nelle idee, nel modo di pensare e progettare), nella società e nella politica, per essere collaboratori e promuovere l’attuazione del Regno. Un modello di perfezione che affascina e attrae, perché non rifiuta nulla di ciò che è umano, ma francescanamente tutto rinnova e fa risplendere nella luce dell’amore divino. È questa santità quotidiana e laica capace di coniugare preghiera e azione, spiritualità e impegno, che Armida Barelli invita a riscoprire e valorizzare: una santità ‘in uscita’, che abbandoni la quiete delle sacrestie e scenda nelle piazze della politica, della cultura, della società, per evangelizzarli, coniugando e facendo dialogare Vangelo e mondo, preghiera e competenze professionali, superando le dicotomie. Una testimonianza che invita alla radicalità, alla riflessione e al serio discernimento, nella convinzione che il Vangelo promuove e perfeziona l’uomo, che ciò che è cristiano è anche pienamente umano, perché la grazia non distrugge ma perfeziona la natura.

Una spiritualità inclusiva e accogliente, luminosa, di ampio respiro, che porta il Vangelo nei luoghi dell’umano, fa risplendere il Regno di Dio nel Regno dell’uomo, che nell’amore abbraccia e trasfigura anche la sofferenza e il dolore. È forse questa la sintesi più radicale che Armida è riuscita a realizzare al culmine della sua vita, che ha raggiunto la piena verità nel dono totale delle propri fragilità, limiti e paure, superando, grazie alla fiducia nel Sacro Cuore, anche la paura più radicale e spaventosa, quella della morte, come testimonia p. Gemelli, che l’ha accompagnata anche in questo ultimo tratto di cammino:

La morte perde il suo orribile volto per creature così preparate dal Divino artefice; Armida Barelli quando con la mano mi salutò per l’ultima volta, poche ore prima di morire, sorrise. Forse il Signore le aveva già fatto capire che l’attendeva di lì a poco la gioia di vederlo faccia a faccia. Ed era questo il compenso di una vita spesa esclusivamente per lui[6].

L’esempio di Armida invita ancora oggi ogni battezzato a interrogarsi sulla propria chiamata a incarnare il Vangelo nelle pieghe della storia. Una storia piena di contraddizioni e incoerenze, ma già salvata, perché profondamente amata; una storia che, tuttavia, bisognosa di attualizzare e rendere operante questa salvezza, chiede ai cristiani di esserne artefici, diventando ‘artigiani’ di speranza, testimoni credibili del Regno[7].

 

[1] M. Sticco, I nostri Fondatori: due grandi francescani, in Sulle orme di Francesco, a cura del Consiglio centrale dell’Istituto secolare delle Missionarie della Regalità di Cristo, Roma 1981, 46.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem.

[4] Cf. ivi, p. 47.

[5] Cf. ibidem.

[6] Ivi, p. xli.

[7] Per approfondire: A. Picicco, Armida Barelli, Padova 2007; M. R. Del Genio, Armida Barelli. Un’esperienza di mistica apostolica laicale, Città del Vaticano 2002; Ead. Donne nuove. Armida Barelli tra le donne del suo tempo, Torino 2021; B. Pandolfi, Vivi una vita piena. Armida Barelli scrive ai giovani, Roma 2021; Ead., Armida Barelli. Una donna oltre i secoli. Con DVD, Roma 2014; M. Serafini (a c. di), Agostino Gemelli e Armida Barelli. Una sintesi francescana per l’Italia, sez. monografica della rivista Convivium Assisiense (XXIII/1 [2021]), Assisi 2021.

Un’altra curiosità su Armida e santa Rosa

Padre Pietro Messa ci ha segnalato questa citazione tratta da E. Preziosi, La zingara del buon Dio. Armida Barelli, storia di una donna che ha cambiato un’epoca, prefazione di papa Francesco, Cinisello Balsamo 2022, p. 176, nota 92:  
“Per il  santuario di Loreto Armida avrà un’attenzione speciale, tanto che vi è una cappella dedicata, la quinta laterale della navata destra, che nel 1933 fu decorata dal pittore Tino Ridolfi (1886-1956) con le giovani sante patrone della Gioventù Femminile: sant’Agnese, santa Rosa da Viterbo e santa Giovanna d’Arco, la beata Imelda Lambertini, Maria Bambina e santa Teresa del Bambin Gesù, nel 1953 sostituita, dopo la canonizzazione, da santa Maria Goretti”.
Un video della cappella dell’Immacolata nella Basilica lauretana – in cui s. Rosa da Viterbo è denominata erroneamente “da Lima” – in questo video.

Letture … frizzanti nel chiostro

Giornata nazionale per la promozione della lettura, 24 marzo 2022

I Convegni di studio sono capaci anche di questo. Portare alla luce una storia – o un frammento di storia – che prima non si conosceva, facendo emergere, dopo attente e non sempre agevoli ricerche, fatti del tutto inediti (o poco indagati) e persone dimenticate o almeno non molto note.

Questo è quanto è avvenuto a Viterbo lo scorso novembre, durante il Convegno Microstoria e storia della vita quotidiana dalla documentazione dei monasteri di clausura femminili (XV-XIX secc.): nello specifico, pratiche e strategie di lettura delle clarisse di S. Rosa sono state presentate svelando esempi concreti di vicende testimoniate tra i libri antichi a stampa usati dalla comunità religiosa lungo i secoli.

E non deve sorprendere se episodi anche insoliti hanno fatto capolino tra le pagine vissute, rendendo più curiose ed ‘effervescenti’ le letture del tempo, ma anche offrendo interessanti spunti per chi oggi si ritrova a sfogliare questi volumi.

È il caso di un’opera edita a Padova nel 1709, ovvero Delle lettere spirituali di san Francesco di Sales: l’edizione non sembra in Italia molto diffusa, tuttavia l’esemplare conservato a Viterbo riserva inaspettate sorprese.

In una delle pagine iniziali (per essere precisi: sulla carta di guardia anteriore) una monaca del Settecento ha voluto lasciare un segno del suo passaggio e a mano riporta, non senza qualche inesattezza grammaticale, questa annotazione:

Io Marianna

Capalti mano

propia e nissuno

se la propi, che que-

sto sì ch’è mio, mio,

nissuno me lo tocchi.

Un battibecco, che rende il tutto più gustoso, è però dietro l’angolo: poco tempo dopo Livia, una nipote di Marianna (al secolo: la zia Teresa), anche lei clarissa nel monastero di S. Rosa, utilizza la parte finale del medesimo libro (la carta di guardia posteriore) per precisare:

Io Livia Capalti

ò pregato istantemente

la zia Teresa

a non scrivere quel-

la falsità da capo

a questo libro, ma non

mi a voluto dare udien-

za, assolutamente l’à vo-

luto scrivere, sicché

abbino pazienza.

Insomma, piccole storie familiari, di monache ma soprattutto di lettrici, che hanno voluto quasi passarsi il testimone nell’uso e nella tutela – estremamente scrupolosa – di un volume a stampa, custode di contenuti spirituali da assaporare nello studio (nonché nella lettura personale) e da far propri.

Per concludere: ancora più caratteristiche appaiono le tre righe che un’altra mano ha fatto seguire alla dichiarazione di Livia: «E la sig.ra Lugrezia pare viterbese, per quanto pianta carote, capite?». Significati e allusioni sono con ogni evidenza da cercare altrove, ad esempio tra i documenti dell’archivio del monastero di S. Rosa… o forse più in là, oltre le grate della clausura.

FRANCESCO NOCCO

Strenna di Natale: il presepio da Greccio a S. Rosa

Tempo di Avvento, tempo di attesa… Intanto però la Natività si prepara a fare il suo ingresso nelle case. Quello del Presepio rappresenta l’elemento senza tempo per eccellenza al centro della devozione popolare cristiana, molto più del laico albero di importazione nordica, sebbene tragga origine da tradizioni tardo antiche e medievali. Ne rintracciamo le primitive testimonianze già all’interno dei reperti sepolcrali romani, come nel caso delle pitture rinvenute a Roma nelle Catacombe di Priscilla lungo la Via Salaria (III° sec.), o i bassorilievi del Sarcofago di Adelfia estratto dalle Catacombe siracusane di San Giovanni (IV sec.).

Per giungere a quell’usanza, tipicamente italiana nei primordi, poi estesa a tutto il mondo cristiano, di raffigurare la scena della Natività bisogna però attendere l’intuizione del Santo di Assisi, quando questi, di ritorno dal suo viaggio in Terra Santa, dove era rimasto particolarmente colpito alla visita di Betlemme, pensò di rievocare la nascita di Gesù in un piccolo borgo dell’Appennino umbro a lui caro che trovava tanto simile alla città palestinese. Ottenuta preventivamente un’autorizzazione da papa Onorio III e successivamente il nulla osta del castellano di Greccio, Francesco diede forma per la prima volta in quel luogo alla riproduzione della sacra scena. In quella primissima rievocazione nella notte di Natale del 1223 c’erano solo la grotta, il bue e l’asino; nessuno prese i ruoli di Gesù, Maria e Giuseppe per non darne un eccessivo spettacolo. I popolani accorsi ad assistervi divennero invece inconsapevolmente parte di un quadro più grande, oggetto in futuro per innumerevoli riferimenti.

Tommaso da Celano, biografo del Santo, descrive così la scena nella prima Vita:

 Si dispone la greppia, si porta il fieno, sono menati il bue e l’asino. Si onora la semplicità, si loda l’umiltà e Greccio si trasforma quasi in una nuova Betlemme”.

Su impulso di quanto san Francesco aveva fatto a Greccio, ben presto l’iconografia sacra avrebbe riservato un grande interesse a questo soggetto evangelico, attraverso una produzione iconografica destinata a divenire nel tempo sempre più cospicua e fortunata. Dai primi affreschi realizzati da Giotto ad Assisi per la Basilica Superiore o a Padova per la Cappella degli Scrovegni, al primo esempio di gruppo scultoreo eseguito da Arnolfo di Cambio nel 1283 ed oggi conservato nella cripta della Basilica di S. Maria Maggiore a Roma, il Presepio via via passò dall’ambito prettamente artistico a quello popolare, soprattutto a seguito del Concilio di Trento, per poi consacrarsi definitivamente a partire dal sec. XVIII° con la nascita delle grandi tradizioni presepistiche regionali in pieno periodo Barocco.

A Roma, in particolar modo, “esplodeva” l’arte dei “Pupazzari” che si specializzò proprio nella produzione di statuine in terracotta per la costruzione dei presepi tridimensionali. A Napoli invece la tradizione presepistica ha trovato una dimensione del tutto particolare, divenendo parte non secondaria del patrimonio storico, artistico e culturale della città, tanto da far affermare al locale collezionista Michele Cuciniello che «il presepio è Vangelo tradotto in dialetto partenopeo».

La ricchezza simbolica ed allegorica del presepio napoletano generò infatti un decalogo di “regole” da seguire più o meno pedissequamente per la realizzazione di un’opera in cui la Natività doveva trovare spazio all’interno di un contesto molto più ampio, riuscendo a catturare l’attenzione dell’osservatore pur non posizionandosi necessariamente al centro della scena. Immancabile quindi trovare elementi come lo scoglio di sughero che si presta a collina, ma anche a sistema di grotte e ricoveri per personaggi di contorno come artigiani e pastori; le vestigia di un anonimo tempio romano dove il più delle volte trova rifugio la Sacra Famiglia, l’elemento dell’acqua imbrigliato sotto forma di rivo, specchio, fontanili o pozzi, oppure gli stessi Magi che giungono in visita a Gesù, i quali, più che come antichi sacerdoti zoroastriani dalla remota Persia, sono riproposti in sfarzosi abiti orientali che risentono molto del gusto turco-ottomano settecentesco. Questi ultimi personaggi hanno rivestito un ruolo fondamentale anche nella durata del presepio. In molti casi infatti esso rimaneva esposto fino al 2 febbraio, la Candelora, giorno in cui secondo la tradizione i Magi ripartirono da Betlemme.

La ricchezza di particolari, la minuziosità nel replicare scene di vita contadina o popolare contemporanea, affiancate anche da un supporto tecnologico sempre più sofisticato, ma soprattutto le dimensioni considerevoli di queste opere di ingegno portarono infine alla costruzione anche di presepi permanenti all’interno di palazzi nobiliari o vescovili, in chiese e monasteri.

Uno di questi è possibile ammirarlo presso il Monastero di S. Rosa a Viterbo, precisamente all’interno della Casa della Santa. Tutto ebbe inizio quando un sacerdote del viterbese, Mons. Aroldo Gasbarri, già arciprete di Oriolo Romano negli anni ’30 del secolo scorso, poi divenuto Economo del Pontificio Collegio Urbano di Propaganda Fide, ricevette in dono un folto gruppo di statuine in legno d’acero intagliate a mano e dipinte con colorazioni ad olio dai maestri artigiani della Val Gardena. Si trattava dei personaggi tipici del presepio sud-tirolese, alcuni dei quali anche con repliche in pose diverse, utili a rappresentare più di una scena. Il sacerdote le conservò gelosamente per tutta la vita, ma promise che un giorno queste sarebbero andate al monastero della patrona di Viterbo a cui pare fosse molto devoto…e così avvenne.

Le statuine giunsero a Viterbo nei primi anni ’70 e vennero temporaneamente impiegate per allestire un presepio nel Santuario. Per motivi logistici si scelse poi di spostarle presso la Casa di s. Rosa in attesa di trovare loro una sistemazione più consona. L’occasione si presentò proprio quando nel 1980 le monache Clarisse iniziarono delle opere di ristrutturazione della Casa al fine di consentire una maggiore fruizione da parte dei pellegrini. In quell’occasione si scelse di mettere mano anche al piano superiore dove, da secoli, resistevano ancora in condizioni molto precarie un antico fienile e una nicchia incavata nel muro che, secondo la tradizione, corrispondeva alla cella in cui si ritirava la Santa.

L’intenzione delle monache era quella di ricavare uno spazio ad hoc per la costruzione di un grande presepio permanente dove poter ricreare l’ambiente in cui si svolse la vita di Gesù ed utilizzare le pregiate statue lignee per trasporvi i racconti evangelici. Grazie allo sforzo di alcuni volontari del Monastero, sotto la meticolosa regia di Suor M. Celeste Ciancialla, in poco tempo venne completato un presepio poliscenico di circa 15 mq suddiviso in sette “quadri” che vanno dall’Annunciazione a Maria fino ad arrivare persino alla Resurrezione di Gesù, passando ovviamente per la scena della Natività, riproposta in due quadri distinti per permettere l’aggiunta dei Magi scortati da maestosi elefanti, dromedari e camelli ed infine l’ambientazione della fuga in Egitto (idealizzata nella forma della “cornice” e soprattutto nella presenza in primo piano di una grandiosa sfinge).

Per realizzare le scenografie dello sfondo venne presa ispirazione da alcune delle trecento fotografie dei paesaggi palestinesi eseguite in esclusiva per una rara pubblicazione che si conservava in Monastero, “Il Vangelo e gli Atti degli Apostoli” (Traduzione e note di P. Angelico Poppi o.f.m. conv., Edizioni Messaggero, Padova, 1961). Oltre che per la completezza della narrazione, questo presepio si distingue pertanto per la grande attenzione riservata ai particolari. Ogni personaggio, casa o albero è disposto in maniera tale da rispettare le dovute proporzioni nelle distanze prospettiche. Il cielo e le montagne sullo sfondo presentano inoltre un meccanismo aurora-tramonto in rigenerazione automatica, così come avviene per il passaggio della stella cometa; il tutto proiettato sul telo bianco che fa da quinta. Completa l’insieme un sottofondo sonoro fatto di rumori di acqua in movimento e un leggero accompagnamento musicale

Nel tempo, va detto anche che il presepio permanente della Casa di s. Rosa ha subito diverse opere di ristrutturazione, soprattutto dopo nuovi lavori di sistemazione che hanno interessato il tetto del locale, che ne hanno impedito la fruizione per alcuni anni. Molti sono stati i volontari che si sono susseguiti nel corso del tempo per fornire anche solo piccoli contributi, tutti utili alla manutenzione del presepio artistico di S. Rosa. Tutt’oggi esso necessita infatti di continue accortezze per far sì che possa essere sempre conservato e trasmesso a chi sceglierà di venire a visitarlo.